E’ finito il tempo del Ragazzo con la rana di Charles Ray che stava a Punta della Dogana dal 2009, al posto suo ora c’è un lampione, come fosse la luce nell’aldilà di quella ranocchia presa per i piedi e finita male. Nel frattempo però, anche la libertà del bambino è terminata e quindi uno pari e palla al centro. Inizia così Prima Materia, una delle ultime mostre della Fondazione Pinault, insieme a L’illusione della luce e Irving Penn, Resonance. Come appare scritto nel librino “di sostegno” all’esposizione, “i testi alchemici medievali contengono centinaia di descrizioni e definizioni diverse della prima materia: sostanza primeva che distingue e insieme costituisce terra, aria, fuoco e acqua; sostrato informe di ogni materia, comprendente anima e corpo, sole e luna; amore e luce, immaginazione e coscienza; ma anche urina, sangue, sporcizia. È stata ricercata nel terriccio oscuro dei boschi e all’interno del corpo umano. È il caos primigenio che esiste prima del tempo e di qualunque possibilità di futuro. Occidente e Oriente insieme, è il Tao di Lao Tzu e forse, per la scienza, la materia oscura di cui è composta gran parte dell’universo. Le definizioni di questo medium che racchiude in sé tutti gli elementi variano per prospettiva culturale o identità personale. Talvolta rappresentata circolarmente come un serpente che si morde la coda, la prima materia è essenza pura, tutto e nulla, ovunque e in nessun luogo, e può assumere molteplici forme”. All’ingresso di Punta della Dogana c’è subito un’opera di Bruce Nauman (No no, new museum, 1987), il video di un clown che sbattendo continuamente i piedi per terra grida senza sosta “no no”. Le porte che si aprono fanno riecheggiare il suo dissenso nel campo veneziano della Basilica della Salute, quasi una liturgia mistificante che culminerà poi nell’ala estrema del palazzo, di fronte alle quattro crocifissioni di Adel Abdessemed di cui proveremo a parlare più avanti. A questo punto si dovrebbe pagare il biglietto (guardare un pagliaccio non costa mai niente), oppure potreste entrare gratis se siete disoccupati o bambini (mostra peraltro sconsigliata a quest’ultima categoria). Le porte conducono alla stanza del servizio guardaroba, il quale di per sé non funziona tanto bene ma offre l’installazione audio di Dominique Gonzalez-Foerster. Il tema della mostra, ricavato dal titolo Prima Materia, riconduce a quell’arkè filosofico del periodo cosmologico che ci ricorda l’acqua di Talete da cui sarebbe nato il mondo. L’opera, dal titolo Raining (2012), evoca appunto la pioggia incessante, tratta da un’istallazione maggiore che rappresenterebbe la scena di una Londra del futuro in cui i cittadini si rifugiano al TATE per ripararsi da questa pioggia. Il suono (e forse il cosmo stesso) rappresenta simultaneamente la costanza e l’ossessività, immagini anch’esse che ci ricordano sovrapposte quell’Uroboro che si mangia la coda (quel serpente di cui parlava nel librino di sostegno). La prima “vera” stanza del museo è in realtà un cinema un po’ più suggestivo e contemporaneo, che coinvolge non solo per ciò che si deve vedere ma anche per ciò che si guarda e si sente. Il film proiettato è P.opular S.ky di Lizzie Fitch e Ryan Trecartin, un susseguirsi più o meno sconnesso di scene che vedono protagonisti quelli che ricordano alcuni dei freaks di Diane Arbus. Se si vogliono indossare le cuffie, l’audio è raddoppiato dalla presunta voce degli attori, altrimenti si sente solamente un sonoro che in verità coincide perfettamente con le parole che sembrano uscire dalle loro bocche. Lo spettatore siede su sgabelli, panche e poltroncine che richiamano lo stile dei lounge bar addizionati di alcuni elementi stranianti come un’amaca, delle carriole, un trolley appeso ad una corda. Le piastrelle d’acacia su cui è posto il tavolo centrale con le sue panche, anticipano gli spazi successivi, che suggeriscono forse “un’arte immobiliare” da cui uno si aspetta che esca quello vestito di giallo a chiedere quante ante si desiderino per l’armadio. Qui però non succede nulla e la narrazione bisogna inventarsela a partire dalla moquette. P.opular S.ky (section ish) from Ryan Trecartin on Vimeo Al primo piano, dopo le opere di Marlene Dumas, c’è la Turkish Forest di Mark Grotjahn, che sorge su nove dipinti piuttosto cupi, illuminati da certi dettagli fluo che ricordano decisamente certe tute da sci anni ’80. Resto a fissare per un po’ gli aghi fitti e lunghi di questa foresta (che sembra grande solo perché il dipinto rende l’idea di un fogliame ingigantito) quando ad un certo punto una vocina più attenta del mio sguardo, mi fa notare che tra le foglie si possono scorgere dei volti. Dalla vissuta foresta turca, si arriva poi alla sala di Llyn Foulkes che ci getta subito nel caldo brodo della pop-art. La critica al declino morale e politico degli Stati Uniti è scandito dalle varie Bloody heads e dalle tracce insistenti lasciate dal passaggio di Mickey Mouse, il quale in certe opere appare un po’ sbruffone di spalle, mentre in altre si manifesta solo in parti (col naso, per esempio), prestando fede a quella “sindrome del macellaio” affissa dichiaratamente in Pig del 1963. In Deliverance (2007), quel Topolino che stava per accingersi a dipingere, è invece a terra, ucciso dalla figura di contorno dell’artista stesso che gli ha sparato in pancia. L’icona fumettistica passa così da intruso attivo nelle opere degli anni ’70 a vittima del suo attivismo, mentre una mezza faccia incastonata nella finestra, ha assistito celatamente a questa scena atroce, in un paesaggio quasi sciolto, un po’ timidamente alla Dalì. Il testimone sbarra gli occhi di fronte al delitto, ma è lui stesso troppo timido per denunciarlo. Ma a questo ha già pensato l’artista, vittima e carnefice di ciò che produce, soggetto e oggetto del mercato artistico: di fronte a Deliverance, sulla parete opposta, l’autore si rappresenta leggendo un giornale su cui sta scritto “invest in art make money”. Le opere di Roman Opalka si concentrano invece sulla luce e sul bianco (che effettivamente esiste solo grazie alla luce). Luce e numeri in tre tele certosine quasi trasparenti dove è scritta una lunghissima sequenza che parte dall’uno e termina con la fine della tela. Alle tele corrispondono poi gli autoscatti dell’artista, che a distanza di sette anni (il tempo in cui le sequenze sono state concluse) appare certamente invecchiato ma sempre più luminoso e riflettente, combaciando quasi col bianco delle tele stesse e quindi con la coda da mangiare del nostro solito Uroboro. Ma quella già citata teoria piuttosto orientale sull’inesistenza di un principio (e quindi di una fine), si palesa a tratti nella sua versione occidentale (quella lineare) che qui nasce probabilmente con l’anno di esecuzione della prima opera (1965) e termina senza scelta nel 2011, quando l’artista muore. Alla domanda: quindi l’infinito non esiste? La vocina di prima che ora capisco sorridere mi risponde: è nel pensiero. Luce e bianco si mostrano poi in forme differenti in altre opere, come nei famosi Achrome di Piero Manzoni oppure nella suggestiva installazione di Loris Gréaud, dove la bianca luce industriale sovraespone il luogo di fruizione dell’opera, che diventa una sala d’attesa disinfettata e accecante. L’attesa però è inutile, e al posto dell’orologio alla parete, scandisce il tempo un feto di scimmia che ruota su se stesso in senso antiorario. Ad un certo punto tutto si spegne, e mentre si crede che l’attesa sia terminata, la scimmia continua a girare, consapevole della sua venuta, vita latente ormai svelata. LORIS GREAUD _ DOES THE ANGLE BETWEEN TWO WALLS HAVE A HAPPY ENDING? _ PRIMA MATERIA _ 2013 from GREAUDSTUDIO on Vimeo. Al piano terra, uno degli spazi più grandi ospita le opere di diversi autori, alcuni esponenti italiani dell’Arte povera e altri giapponesi della Mono-ha. La Catasta di Alighiero Boetti affianca la scritta al neon di Mario Merz Se la forma scompare la sua radice è eterna, rievocando la luce dell’intelligenza che fa scrivere l’autore, destinate entrambe (intelligenza e scrittura) all’estinzione. Tra acque perfettamente calme ed ingannevoli, pietre e tronchi d’albero, Nobuo Sekine pianta invece un’altra radice, quella fisica, della natura, come una res extensa opposta a quella pensante di Mario Merz, due sostanze eterogenee che però reclamano sempre il loro dualismo. Nella sala opposta ritorna l’infinito (o meglio, torniamo a pensarlo), con il Metro cubo d’infinito di Michelangelo Pistoletto. Sei specchi che compongono un cubo, esternamente dipinto ed assemblato da una corda. Ogni lastra – internamente specchiante – è appositamente prolungata per permettere allo spettatore di scorgere in quel frammento di specchio l’infinito, vedendo ripetere al suo interno gli angoli riflessi del cubo stesso. Il Metro cubo d’infinito mi rimanda subito ad un’opera di qualche stanza prima, Foundational text di Theaster Gates, due libri ben rilegati su un massiccio piedistallo nero che, visti al contrario (grazie allo specchio di Pistoletto) avrebbero formato una sorta di quel Socle du monde di Manzoni, su cui avrebbe dovuto poggiare il mondo. Un altro principio del cosmo, un arkè sicuramente più concettuale (o forse solamente più letterario, trattandosi di libri) rispetto all’acqua iniziale di Talete. La penultima opera (non seguendo l’ordine della mostra, ma quello di questo nuovo senso trovato) è Crystal Skull di Sherrie Levine, dodici teschi di vetro esposti nelle loro singole vetrine. Lo spettatore passa in mezzo a questi morti a cui nulla rimane, se non continuare a mettersi in mostra, come forse è stato per loro (per noi?) nella vita. È un cimitero prezioso, a cui si vuole prestare rispetto e in cui allo stesso tempo si frantumerebbero violentemente tutti i vetri poiché percepiamo i teschi deriderci mentre sfiliamo in mezzo a loro, esibendo il nostro vano desiderio di vita. Il teschio, simbolo assai ricorrente negli ultimi anni (l’opera risale al 2010) svela qui la sua matrice e il suo motivo d’inflazione: il nocciolo dell’uomo ha un aspetto disumano, ma a quanto pare, è la natura che lo richiede. Quella voce sorridente che continua a scampare alla vista dei guardasala, stavolta sento suggerirmi che quest’opera è la speranza di diventare belli da morti. L’ultima opera, appena accennata all’inizio, diventa a questo punto la più importante, che incarna nella sua materia di filo spinato diversi concetti fin qui colti, colti affatto o appena toccati. Décor (2011) di Adel Abdessemed sono quattro crocifissioni composte del filo spinato di Guantanamo. La figura di Cristo diventa immediatamente né una né trina ma quadriplicata. La sala in cui si consuma questo culto quasi tragico è la parte più estrema di Punta della Dogana, opposta alla preghiera veridica che si svolge nella Basilica della Salute che segue il palazzo. Il simbolo di Cristo (etimologicamente “simbolo” significa “mettere insieme”) rimane tale, includendo però il suo opposto, il diavolo (che significa appunto “separare”). L’opera si separa così da ciò che rappresenta e separa i suoi devoti, a causa della Prima Materia tagliente di cui è composta (ricordiamoci però che il clown all’ingresso ci aveva avvertiti di non entrare). Tutta questa riflessione ha preso origine da quell’arkè che fa esso stesso da principio alla storia della filosofia occidentale. Vorrei così concludere, per par conditio e per corrispondere a quell’Uroboro che si mangia la coda di cui abbiamo parlato lungo tutto questo scritto, con l’indiano tat twam asi (già occidentalizzato in “you are that”), espressione che significa appunto “questo sei tu”, riferendosi all’unità di tutti gli esseri, per cui ciò che è fuori di noi non è diverso da ciò che noi siamo. Jim Morrison probabilmente direbbe che “ogni cosa detta significa questo, il suo opposto e tutto il resto”. Insomma, la vocina che era fuori di me, non è poi molto diversa da ciò che sono io. info mostra PRIMA MATERIA: l’infinito nel pensiero mostra a cura di Caroline Bourgeois e Michael Govan Venezia, Fondazione Pinault, Punta della Dogana fino al 31/12/2014 Aperto tutti i giorni dalle ore 10 alle ore 19 tranne martedì Chiusura delle biglietterie alle ore 18 Giorni di chiusura: 25 dicembre Biglietto intero 15€ / Punta della Dogana o Palazzo Grassi 20€ / Punta della Dogana + Palazzo Grassi Biglietto ridotto 10€ / Punta della Dogana o Palazzo Grassi 15€ / Punta della Dogana + Palazzo Grassi Disclaimer Le immagini e i video presenti in questo articolo sono inserite per esclusive motivazioni di “cronaca”, prese in parte da Internet e valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo alla redazione, attraverso la pagina Contatti, che provvederà prontamente alla rimozione delle immagini utilizzate.