Prigioniera, dileggiata, incatenata: la Statua del Dolore metafora di una cultura che non vuole cambiare Manlio Converti 22 Maggio 2014 News Prigioniera al Castel dell’Ovo, nascosta, praticamente abbandonata, nessun cartello che ne indichi la lunga storia dolorosa. È proprio lei, non posso non notarla, nella sua dolenza, nel suo incedere statico, nelle sue abbondanti curve femminili, nella sua disperazione. La statua del dolore fu posizionata coraggiosamente davanti all’Ospedale Pascale e perseguitata quotidianamente per cinque anni da un manipolo di fascisti, che la dileggiarono, spesso trasformandola in decine di modi diversi. Incatenata nel bronzo, la statua non rispose e la sua posa di donna perseguita fu nascosta in sacchi di spazzatura, in cartoni, in nastri colorati rossi e bianchi, da cartelli oltraggiosi, da richieste di vendita – scritte in pessimo italiano – e da paradossali bandiere tricolore. Nessuno la ricorda? La storia, anche quella dell’arte è scritta dagli uomini e lei, una donna, umile, sconterà nell’obliato angolo del castello le sue sventure ancora per molto tempo. La statua del dolore, giustamente presente davanti a un ospedale, fu manipolata a fini politici contro la ‘sinistra’ che imponeva l’arte contemporanea, ancora arte ‘degenerata’. La sua posa ricordava anche altri dolori al centro della cittadella del cemento, davanti alla rotatoria più trafficata ed inquinata della città, che circonda – come nel peggiore degli incubi – ben cinque strutture ospedaliere, ognuna delle quali è la più grande e la più richiesta del Meridione. Colpa politica amare l’arte e mostrare il dolore della dea Cibele, dea montagna, sulla cima del Vomero, incapace anch’essa di attraversare il gorgo di auto che non si arresta nonostante le numerose metropolitane. Colpa dell’artista, maestro Antonio Tammaro, cui fu commissionata proprio dal regime fascista e collocata in Etiopia; colpa sua, che produsse una donna che si permette di mostrare impudica il corpo e i sentimenti, invece di sottomettersi anima e corpo al volere del maschio, chirurgo o politico che sia. La sua sepoltura in questo angolo – non proprio remoto – della città urla una pronta liberazione. Chiediamo la grazia, per l’arte e per la storia della donna e del dolore.