Non si può non raccontare una storia del genere velocemente, per dirla tutta e subito, senza dirla dicendovela. Comunicata rapidamente all’1.17 p.m. quando è stabile la previsione di quattro ore di sonno. A causa dell’interruzione di tutte le proiezioni, la mancanza di corrente elettrica e di connessione, il film di cui vi parlo non è stato visto dall’estensore di questa nota; la recensione appare comunque a mia firma nel luogo stabilito con il lettore di questa rivista. L’ultimo film di Herault è stato presentato alla Biennale di Venezia 2015, non parliamo quindi di un formato standard da sala ma di un ibrido d’istallazione, di video arte. La mia testimonianza è in questo caso indiretta, basata su una ricostruzione telefonica del film, una conversazione avuta con un occhio delicato che invece l’ha potuto vedere. La zona da cui vi scriviamo, com’è noto, è ormai ampiamente controllata dalle forze dello Stato Islamico, tutte le comunicazioni sono ormai difficili. Questo non c’impedisce di godere del disegno coraggioso tentato da Jean-Baptiste Herault fotografo franco-vietnamita, autore già di dieci lavori dedicati al ritratto, al riflesso di sé, allo sguardo, agli occhi in primo piano e che ora detta il suo autoritratto filmico. Nel 2006 a Parigi si presentava una retrospettiva che oggi occupa lo spazio triplice di una pala d’altare, lo stesso motivo iconografico rifratto sulle tre ante dello schermo, fatte di uno spazio mobile, una temporalità acquisita e una funzione nuova, imprevista del tempo: la storia, la narrazione inverosimile. Invitato da alcuni amici a Roma, l’artista programma una serie di studi sul ritratto, sulle cose italiane, sui volti e non sui paesaggi. Il suo arrivo è atteso da Parigi, porta con sé tutta l’attrezzatura e viaggia da solo. Jean-Baptiste ha quarantotto anni, il volto più asiatico che francese non suggerisce con franchezza un’età chiara, indiscutibile e condivisa. L’alloggio romano è comodo, ottima l’accoglienza che riceve. Conosce Francesco Vezzoli, e con lui ha un rapidissimo incontro e un chiarimento-cameo divertito sul remake del Gore Vidal’s Caligula presentato a Venezia già dieci anni fa. Il giorno seguente al suo arrivo è stato previsto, preparato, un pranzo di benvenuto in suo onore. Gli ospiti lo attendono con affetto, una splendida villa romana drappeggia il film nella sua nudità, nella sua regale semplicità, in questa fase almeno, e nella gloria dei brevi 45 minuti del montaggio completo. Non è ornamento esterno l’incontro che la macchina da presa ha, spontaneamente e liberamente con Emanuel Ungaro, stanco e spazientito dall’attesa, confortato dall’irripetibile ospitalità del padrone di casa. Fino a quando la figlia del padrone di casa riceve una email da Jean-Baptiste Herault che si scusa ma non potrà prendere parte al pranzo, perché è dovuto rientrare drammaticamente a Parigi. Il pranzo prosegue senza turbamenti, vengono fatti solo alcuni accenni ai detriti umani che il fotografo pare frequenti abitualmente chiamandoli amici, in modi indiscriminati, disattenti. Ma le indagini della comunità riunita finiscono lì. Segue l’indomani una telefonata di un amico del padrone di casa, fondatore di una delle case editrici egemoni in Italia, di cui non farò il nome, all’hotel dove era sceso il fotografo per avere notizie, conferme sulla sua partenza, smentite sulla reale presenza dell’ospite… Illustrazione di Roberta Garzillo e Giulia Della Corte Una svolta nella breve indagine telefonica arriva subito: sì, un francese di quella taglia e di quell’età ha alloggiato lì ieri ed è stato fatto scendere dalla polizia e portato via con tutte le persone che erano in camera con lui in quel momento. Al telefono non vengono fornite altre informazioni su chi siano stati gli ospiti di quella camera. Uomini, donne o bambini. Non sappiamo e se anche lo sapessimo siamo tenuti al rispetto della privacy del cliente. Il giorno seguente un’email di scuse calorose viene inviata al padrone di casa. Jean-Baptiste Herault è mortificato ma è dovuto rientrate in fretta a Parigi per un’improvvisa discopatia, e non essendo più in grado di proseguire il lavoro a Roma con un’attrezzatura da lavoro di oltre sessanta chili, ha preferito rientrare subito. Un autoritratto della clandestinità o dell’artista come clandestino di lusso quindi, un uomo che appare all’inizio e nei profili della vicenda e poi sparisce, non senza qualche traccia di miseria, d’imperizia mondana e di dubbi più intensi. Resta la texture del documentario o del backstage a raccontarci una quinta, un’apparizione falsificata della mondanità, con una rapidità inusuale, un divertimento inconsueto e superbamente inconsistente. L’illusione che riesce a ricostruire al meglio un formato del genere, confortato anche dal montaggio da 45 minuti, è proprio quella dell’autofiction d’artiste che qui si sposta al ritratto, alla fotografia, e da ultimo al film narrato, mostrato come un antico autoritratto düreriano, allegorico e incerto, opaco quanto brillante. Qui è lo stesso autoritratto, genere dal vero e dal vivo, a divenire falso, falsificabile ed eluso, reso scivoloso nella direzione di un sotterraneo escamotage di fuga. In modo analogo è la mondanità, questo centro demiurgico dell’opera e delle arti più affini al glamour, alla moda, ad essere più vera del vero in questo riproducibile formato-reperto, del documentario falsificabile all’infinito. Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.