Maria Adele Del Vecchio: l’arte di allenarsi a interrompere gli automatismi Redazione 28 Marzo 2015 Artisti, I Protagonisti Articolo di Giulia Scuro. Maria Adele Del Vecchio, artista casertana quest’anno finalista al premio Furla, inaugura la galleria napoletana di Tiziana Di Caro a piazzetta Nilo, il 28 Marzo, con una mostra dal titolo Within, rather than above. E’ da molto tempo che desideravo intervistare Maria Adele Del Vecchio, per la sua capacità di porsi e porre domande, cifra inconfondibile che caratterizza le sue opere. Nell’avvicinarsi alla sua arte si comprende che non esiste una chiave di lettura predominante, ma che piuttosto al suo interno sussista una sovrapposizione di piani, sempre dominati da una lucida volontà dell’artista, che mostrano quanto la vita, il pensiero e l’azione si fondino nell’atto creativo. La prima cosa che noto è la sua pelliccia artificiale: Maria Adele è un’antispecista e non indossa indumenti ottenuti da fibre animali; quando poi le chiedo la provenienza dell’indumento, mi risponde che il cappotto “ha diciotto anni, è maggiorenne”, mi dice con un sorriso. Maria Adele Del Vecchio crede nella vita degli oggetti e nella memoria che essi portano con sé, e questo è evidente anche nelle sue opere. Le chiedo di parlarmi della sua prossima mostra – lei è particolarmente orgogliosa della sua prima personale nella città che l’ha formata – e, a proposito del suo incontro con Tiziana Di Caro, mi spiega: Quando con Tiziana Di Caro abbiamo parlato della mia personale napoletana nel suo spazio e dell’esigenza di dare alla mostra un’identità, ho pensato di non voler aderire prettamente a un tema, come ho fatto nelle mostre precedenti, ma piuttosto di voler attuare una ricognizione delle mie coordinate, dei miei interessi e ambiti d’indagine. È venuta fuori una mostra che viaggia su due binari. Uno di natura più poetica, intima, nel quale ho inserito riflessioni sulla femminilità e sull’essere donna che hanno inevitabilmente un retaggio di speculazione politica. L’altro, più razionale, approccia il discorso sull’identità attraverso una visione gurdjeffiana della realtà, una prospettiva in rapporto alla quale ho costruito l’idea che sottende tutta la mostra, e che connota anche il titolo, ossia che è illusorio pensare di vivere da svegli, in piena coscienza di sé, perché siamo inquinati da percezioni alterate, e per tornare ad avere una visione esatta delle cose è necessario un allenamento. L’allenamento, per quanto riguarda il mio lavoro in generale e in questo caso preciso, ha una regola generale, quella di interrompere gli automatismi. Maria Adele Del Vecchio, Pollution #1, 2015, stampa a colori su forex, cm 21 x 29,7 Le chiedo di spiegare cosa intende. La nostra vita quotidiana si struttura su comportamenti automatici che il più delle volte rischiano di ottundere una più precisa consapevolezza di ciò che si fa e di dove si è. Per questo mi diverto a spezzettare l’automatismo. Il grande tema dell’arte del Novecento è di creare un momento in cui riconosci l’oggetto, ma l’oggetto non ha la funzione che credevi. Il mio intento è stato invece deragliare totalmente l’automatismo, operando non solo uno spostamento semantico ma modificando l’oggetto stesso. È quello che faccio con gli stereogrammi, ovvero pattern al cui interno, guardando con attenzione, si scopre la presenza di un’altra figura. L’automatismo, che porta a cercare l’immagine nascosta, è interrotto perché io li ho svuotati dell’immagine tridimensionale al loro interno, lasciandoli alla loro piattezza decorativa. Per chi guarda, è un modo per tornare a sé; almeno questo è il mio invito, quello di interrompere l’abitudine collaudata. Chiamo quest’operazione Pollution, parte di un lavoro, presente in questa mostra, in cui cerco di interrompere lo stesso meccanismo. Quali sono stati, fino ad ora, i temi delle tue personali? Le mie personali hanno sempre avuto un discorso portante nel quale ho inserito elementi, supporti, formalizzazioni. La mia prima personale a Prato, presso la Galleria Fornello (2008, No end is limited, curata da Stefania Palumbo, ndr), è stata elaborata su di un personaggio pratese molto importante, sia per la storia di questo paese che per me: Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise il re Umberto I nel 1900 per vendicare l’uccisione di 80 manifestanti (durante le proteste a Milano nel 1898). Portando avanti un discorso fortemente legato al concetto di identità, in quel caso sono voluta andare a Prato come se io stessa fossi Gaetano Bresci, quindi ho creato il ritratto, in cui cerco di essere il più identica possibile – e un po’ ci sono riuscita – all’unica sua foto in circolazione. A partire da quell’immagine ho declinato l’intera mostra sul discorso della memoria e dell’immedesimazione dell’altro. Riflettere sulla sua figura permetteva di ragionare anche sulla storia e su quanto il singolo possa incidere su di essa, e magari cambiarla. La mostra che ho fatto a Berlino (2014, Tonite let’s all make love in London, Supportico Lopez, ndr) aveva a sua volta un tema: sapevo di andare nella città della musica elettronica e, proseguendo nel mio discorso sull’identità e sulla consapevolezza, ho voluto portare un segmento della storia della musica meno diffuso a Berlino, la psichedelia degli anni Sessanta. Con la psichedelia si creano le premesse di una diversa produzione della musica, i brani si dilatano, si inseriscono elementi sonori che non esistevano prima e ho pensato di discorrere con questa città facendole fare un passo indietro. Come soundtrack alla mostra ho composto una traccia audio in collaborazione con Marco Messina. A partire dalla psichedelia ho srotolato poi altri discorsi, ad esempio fotografando il mio viso con quello di Syd Barrett: in questo caso non mi trasformo in lui, ma creo una situazione fotografica nella quale oltre lo specchio c’è il suo volto. Nel guardare me ancora una volta incontro un altro. Maria Adele Del Vecchio, Herstory, 2011 – 2015, fotografia a colori, cm 40 x 60 Maria Adele mi spiega che anche nella prossima mostra è presente la sua volontà di indagare la propria identità, “di allargare i confini della percezione, andando oltre sé, pur tornando a sé, non dimenticandosi”. Alcuni dei suoi ultimi lavori sono strutturati intorno allo specchio. La Fase dello specchio, che Lacan definisce come momento per un bambino di costruire la sua identità, è nelle opere di Maria Adele Del Vecchio fortemente radicalizzata attraverso l’alterazione dell’oggetto riflettente. Uno dei miei ultimi lavori è di presentare degli specchi dai quali ho grattato l’argento sul retro per restituire loro la trasparenza. In questo modo guardarsi allo specchio diviene un modo per guardare attraverso lo specchio, oltre di esso. Il mio rapporto con lo specchio, e con la possibilità di affermare o meno ciò che si è, parte dall’assertività apparente di quel tipo di supporto per cui io mi rifletto e posso pensare: Io sono e quel che vedo è vero. In realtà lo specchio è anche misterioso, è la finestra su qualcosa che è comunque ancora arbitrario chiamare realtà e inoltre si tratta di una replica in movimento, una replica dello sparire più che dell’apparire della realtà. Un altro elemento importante nelle sue opere sono le citazioni, in alcuni casi valorizzate esteticamente con un filo di neon. Penso che ci sia presunzione nel voler essere gli unici artefici delle proprie opere; come diceva Eduardo De Filippo, noi siamo connessi. Non mi interessa dividere l’atomo, come non mi interessa attribuire all’artista il ruolo di inventore, io penso che sia importante che l’arte si sveli per quello che è, per una delle tante cose che è. In questo caso, la possibilità di creare bellezza, coscienza, senza rinunciare a una discorsività che non è più di natura narrativa, ma speculativa. Nel caso di Herstory, c’è anche una forte connotazione politica, femminista. Quando avevo 21 anni ho scoperto di essere donna. Poi ho incontrato Valerie Solanas e ho sentito l’esigenza di ragionare su questa scoperta. Da quel momento ho sviluppato una tensione verso il mio essere donna e verso la storia femminile. Ho scoperto che c’era anche in me un retaggio culturale gravissimo e sintetizzabile con il titolo del testo di Institor e Sprenger, in cui si determinavano le modalità della caccia alle streghe, il Malleus Maleficarum. Partendo dalla mia esperienza mi sono resa conto che esiste una discriminazione sulla quale ho voluto indagare, capire, perché inconsapevolmente vivevo tutti gli svantaggi che riguardano l’essere donna in questa società. Da non religiosa mi sono confrontata con la teologia femminista, il cui discorso mi è piaciuto perché tratta l’uomo da vittima, non da Satana. Privato della voce femminile, l’uomo viene ugualmente danneggiato. Così scopro la parola Herstory, in cui il pronome possessivo femminile her sostituisce quello maschile his della parola history, sottolineando la parzialità del termine. Perché vedo nella stessa accezione linguistica della parola che la “storia” è per millenni stata considerata “storia di lui”. Non mi interessa una storia che escluda l’uomo dal divenire; però la provocazione della mia opera è importante se crea, anche solo per un momento, il paradosso che la storia potrebbe cambiare ed essere solo “di lei”. A questo punto chiedo a Maria Adele Del Vecchio di parlarmi della sua formazione artistica, mi dice che un ruolo fondamentale è stato rivestito dal padre, Crescenzo Del Vecchio Berlingieri (uno dei fondatori del Gruppo Studi P.66, del movimento Humor Power, morto nel 2006, ndr). È stato lui a veicolarla, all’inizio del suo percorso artistico, nel passaggio dalle prime esperienze video all’utilizzo di altri supporti e alla creazione di sculture, installazioni e fotografie che hanno caratterizzato la sua produzione in seguito. Poi mi racconta degli altri artisti che l’hanno segnata a partire dagli anni trascorsi a Napoli. Ho frequentato l’ambiente internazionale che gravitava intorno alla galleria Supportico Lopez, quando ancora era a Napoli, prima del trasferimento a Berlino. In un’altra galleria napoletana, quella di Raucci e Santamaria, ho incontrato Padraig Timoney e sono rimasta incantata dall’estrema versatilità di questo artista: mi ha influenzato moltissimo, da un punto di vista formale, per il suo modo di produrre opere, passando da un medium a un altro, e il non prediligere un supporto specifico, pur conservando una fortissima identità e trasmettendo i suoi contenuti in maniera rigorosa, puntuale e personale. Altri artisti che mi hanno ispirato sono stati Bas Jan Ader, David Hammons, Jonas Mekas. Inoltre sono legata a un lavoro di Anselmo, Entrare nell’opera (1971), una fotografia in bianco e nero in cui è inquadrato un campo al cui interno si scorge Anselmo di spalle. Questo modo di entrare nell’opera che mette in moto un meccanismo nello spettatore e determina l’agire dell’artista, è un discorso che cerco di portare con i miei lavori. Se è costante per quest’artista richiamare la propria identità nelle sue opere, sembra anche che il richiamo sia rivolto in alcuni casi alla sua stessa coscienza, come per risvegliarla attraverso un’elaborazione teorica e formale che dimostra sempre grande spessore. Maria Adele, sorridendo, mi spiega quanto per lei sia fondamentale considerare l’opera d’arte una creazione dinamica, che ponga questioni o, perché no, cambi il mondo attraverso il singolo. Ho l’impressione di trovarmi di fronte a un patto sancito tra lei e le sue opere, ed è allora che comprendo l’importanza delle sue parole quando mi dice “anche io ne sono fruitrice, l’opera deve cambiare anche me“. info mostra Sabato 28 marzo 2015 dalle ore 19.00 La galleria Tiziana Di Caro inaugura il nuovo spazio di Napoli, al primo piano di Palazzo de Sangro in piazzetta Nilo, 7. La mostra inaugurale è la prima personale napoletana di Maria Adele Del Vecchio (Caserta, 1976) intitolata Within, rather than above (dentro anziché sopra) che include opere realizzate in esclusiva per i nuovi spazi della galleria. La galleria è aperta dal martedì al sabato dalle 15.00 alle 20.00 Ingresso gratuito Per info: +39 081 552 5526 http://www.tizianadicaro.it/