HomeNewsLa svastica e la Coca in un inedito di Andy Warhol Emanuele Canzaniello 24 Settembre 2015 News, Recensioni Immaginarie Sembrerebbe che un noto museo di arte contemporanea di New York il 29 giugno scorso abbia dato l’annuncio dell’acquisizione di una nuova opera di Andy Warhol di cui si erano perse le tracce dagli anni sessanta. L’opera, rivela un comunicato stringatissimo, è di dimensioni tali da avere pochissimi precedenti nelle esposizioni museali in spazi chiusi non concepiti per l’opera stessa. Segue una breve nota sul tema dell’opera e sulle fasi di ricerca e acquisizione di una serigrafia che si credeva perduta. Se del lavoro di un artista così grande ancora ci è sfuggito qualcosa fino ad oggi, quanto sappiamo invece realmente, o quanto abbiamo realmente visto di quella vita, vissuta in stato di costante esposizione e trasformazione in video? Illustrazione di Roberta Garzillo. Ecco come ci appare il mènage piccolo borghese di Andy Warhol con sua madre, lei che non seppe niente o quasi di quello che fu la Factory, né delle escoriazioni del figlio rivoltato e scuoiato da Joe Dallesandro iper-sex. Come sua madre ha ignorato molto o tutto del figlio, anche a noi è stato lasciato un segreto. È un nome noto e onnipresente, crediamo di avere una frequentazione completa e intima con le sue opere, ma ci sbagliamo. E dobbiamo anche ammettere di non avere nemmeno una conoscenza reale e precisa di questa vita che fu una sconcertante delizia piegata all’asfissia del banale; il banale da cui nasce tutta l’arte moderna, che è piccolo borghese, o non è affatto, proprio come ci ha mostrato lui. In quella vita troveremmo anche i pomeriggi sfatti e annoiati della Factory, i vetri surriscaldati dalla metropoli ad agosto, i corpi distesi che ricordano i bagni orientali di Gérôme. In quella notte c’è Nico, un dettaglio e una comparsa. In quella corte, per alcuni passaggi di mano della prostituzione maschile, l’opera di cui parliamo è stata fatta sparire. All’esterno della corte – senza che la madre che l’ha fatto nascere a Pittsburgh portandolo via dalla Slovacchia sappia nulla – ci sono altri interni: camere di posa in cui affratellarsi tra uno scatto e l’altro, lotte riprese e prese per i capelli durante coiti ineguali. Warhol tirato per la cravatta e ristorato. Tutto sommato possiamo dire che uno dei centri minori intorno a cui gravita la nostra breve pagina su un’opera che si credeva definitivamente scomparsa sia ancora la bellezza di quegli anni. La storia, ancora tutta da ricostruire nei dettagli, di come sia stato possibile cancellare un’opera di queste dimensioni dal catalogo di Warhol è quasi alloggiata naturalmente in una delle più durature aporie moderne, vecchia quanto la piccola borghesia, incarnata qui dall’interrogazione su quale sia stato l’appeal del giovane tossicomane dal cognome italiano, D’Alessandro, sull’esile Warhol. Lo spirito vinto temporaneamente dalla natura? Una sconfitta questa di cui sappiamo ancora godere? Soffrire e tuttavia imporsi lo spettacolo dell’umiliazione dei privilegi dell’intelletto, schernito e dileggiato. Non a caso, in un passaggio probante delle sue biografie, Warhol confessa alla madre una sua non troppo scherzosa rivalità erotica con Cristo, avviata fin da bambino. E possiamo intuire le possibilità commerciali di quest’Edipo deluxe, chiuso in confezioni e barattoli serigrafici: in quale misura la cultura piccolo borghese ha prodotto la cultura del corpo ipertrofico da curare come un sottoprodotto del lavoro, o, inversamente, in che senso è possibile credere che il corpo di Joe sia tutto quello che terrorizza la piccola borghesia. In ogni caso il martirio cui Warhol si abbandona, penitente, nutrito e acquietato dal membro di Joe è un mistero doloroso. Ai mesi in cui Warhol ha avuto rapporti con D’Alessandro risalirebbe l’opera recuperata, strappata agli archivi privati degli eredi D’Alessandro, e ritenuta autografa. L’opera verrà presentata al pubblico il 24 ottobre 2015. Quel giorno avremo davanti a noi una serigrafia di proporzioni egizie, autonoma e affine alla serie dedicata alla Coca-Cola nel 1962. Le ragioni per le quali era stata venduta e fatta sparire dalla corte di Warhol oggi possono apparire chiarissime e banali. Lo scandalo biografico, se volessimo ricostruirlo, sa innalzare a inquietudini antinomiche più antiche – il vero dio e il vero uomo, l’uomo miserabile santificato per umiliazione nella condanna a morte dei ladri – non inferiori a quelle avvertite da millenni sotto la croce, il semplice scandalo politico dell’opera. L’aquila del Terzo Reich, stilizzata secondo il design elaborato dal regime, sovrasta e artiglia una svastica chiusa in un cerchio di serti; l’emblema è inclinato in una diagonale anamorfica, quasi come se visto attraverso una superficie d’acqua. L’ombra dell’emblema si posa in campo rosso, rosso è il colore compatto e acrilico che domina la composizione. Il rosso di una pubblicità della Coca-Cola diffusa e riprodotta in serie per il Reich millenario. Era una pubblicità storica regolarmente stampata e distribuita in Germania nel decennio nazista; Warhol l’ha riutilizzata come il volto di Elizabeth Taylor. La stampa che scelse fu quella celebrativa dei giochi olimpici di Berlino ’36. Un’edizione limitata. Il titulus crucis è posto in alto, in caratteri gotico-graziosi, recita: Ein Volk Ein Reich Ein Getrank Coke ist es Coca-Cola, più in basso, ai piedi dei mirti, leggiamo XI. Olympische Spiele, Berlin 1936. In questo caso l’opera non è replicata o stampata in più tirature, è un oggetto unico, stampato su uno stendardo delle stesse dimensioni degli stendardi verticali usati per il raduno di Norimberga di quell’anno. Proporzioni monumentali che hanno decretato e decreteranno ancora la difficoltà estrema di poter esporre l’opera per intero in edifici chiusi. Lo sforzo espositivo contribuirà in misura rilevante all’ostensione visiva che saprà offrire l’ultima immagine che avremo dal Novecento, ancora intatta, non vista, inalterata.