Per molti un azzardo incomprensibile, un’inattesa verifica dei limiti estremi del cattivo gusto, l’ultima opera di Daniel Buren sta invadendo la stampa quasi quanto hanno fatto le immagini dei Buddha di Bamiyan distrutti nel 2001. E non è un caso il ricorso a questo paragone enorme, scavato nella roccia e materico, pur essendo una forma del vuoto. Un’opera ricavata dalla sua negazione, fatta di un’impronta e di un elemento naturale come la montagna, pronta a riceverla. Questo stanno diventando le orme dei Buddha, un’opera autonoma, monumento all’iconoclastia.
Il luminoso, il colorato, il venerato Buren ha scelto invece di abiurare al colore, di affidare a quest’abiura l’impronta di un terrore, un’escavazione che nega dall’interno anche la sua opera. Abituati alle sue architetture ortottiche, luminose e innocenti, lo smarrimento che proviamo davanti alla sua scelta ci appare legittimo e per questo più demonico, più inaccettabile.

Isis Throne

Illustrazione di Roberta Garzillo

Un vasto emiciclo di colonne corinzie, una pianta circolare immensa, qualcosa che ricorda da vicino le rovine allestite da Piranesi, la sua Roma memoriale e architetturale. Uno spazio di colonne all’ingresso che non ha molti confronti in grandezza, in rapporti di proporzioni tra i vuoti e i pieni, se non con la sensazione più viva e vera del tempio greco, o egizio, e mediterraneo. Luxor non è distante dalla selva di colonne che abbiamo davanti, che pure ricorda cosa possa voler dire l’immagine della selva per dire la pietra.
Superata la soglia una vasta raggiera d’ombra occupa questo tempio ricavato, un unico ambiente circolare, circondato da colonne anche all’interno, ornamentali più che portanti, addossate al perimetro delle mura. Il buio è quasi completo, potremmo essere al Pantheon a Parigi, o a Roma, è il buio a contarci, quanti siamo all’interno, uno per uno, che risuoniamo secondo i passi. L’unico movimento ad eccezione del buio è un taglio di luce dall’alto, a tagliare l’altare obliquo, a rendere meno dubbi nell’ombra le statue ricchissime in bronzo scurissimo o in marmo obbediente. A beneficiare di questa fenditura luminosa, calda, broccata di sangue, trapunta di rubino, un trono vuoto, incrostato d’ori differenti. Ai piedi del trono un tappeto obliquo anch’esso rosso. Su uno dei lati si conserva invece un ombrello ampio, da parata forse, in giallo e in porpora. È il trono dell’Isis a Roma nell’anno del Giubileo.
Simile alle edicole del mirab nelle moschee, ma più simile ancora ai troni delle nostre vecchie monarchie, scortato appena da un baldacchino, dall’ombrello a lato, incerto tra il flabello orientale, la sua riedizione vaticana seconda, e il suo allure da circo. Il pubblico accede a piedi nudi al grande ambiente, in parziale ricordo della Divina Sapienza a Istanbul, ricordo di un’altra estensione dei domini a occidente.
In alto, sospesa alle balaustrate superiori, quasi prossima al tamburo interno della cupola, pende come una bandiera uno schermo su cui scorrono proiezioni di frammenti montati ad arte dei film su Gesù. Dal muto alla Hollywood classica, sorpresi da qualche spezzone del Cristo basco di Pasolini, fino al domestico formato del Gesù di Zeffirelli. Filmati che scorrono in silenzio, senz’audio, sul telo che oscilla appena, enorme come tutto quello che sembra dilatarsi nel buio. Si rabbrividisce in questo tempio, questo è lo scopo. La sapienza che ha scelto e montato quei film, che ha dipinto per noi con il formato panoramico dei nostri George Cukor questa irridente cerimonia aniconica ci è preclusa, non appartiene a noi ma ci manipola, ci rivolta, ci schernisce. Quei film sembrano scorrere come in una profondità del tempo incredibilmente accresciuta, dilatata, dove il tempo dell’era cristiana scompare assorbito dai nomi di Ninive, di pianure antecedenti al nome occidentale. Sembra già archeologia e museo quella civiltà visiva descritta su quella proiezione concessa, ironica, lontana su nel buio. L’unica luce è concentrata lì sul trono a tre gradini in porpora, leggermente discosto dall’asse centrale della pianta circolare.

 

Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.

A proposito dell'autore

Studioso di letterature comparate è autore di prose critiche su oggetti immaginari, dalle opere d’arte pubblicate in esclusiva per Racna alle recensioni di film mai esistiti apparse su «Le Parole e le Cose» e «Nazione Indiana». Del 2017 il suo primo libro di poesia Per l'odio che vi porto edito da Oédipus. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich.