Ilaria Abbiento: in ogni luogo, la fotografia tra antropologia e scavo sociale Antimo Puca 2 Aprile 2015 Artisti, I Protagonisti Intervista a Ilaria Abbiento per il progetto Epifanie/Laboratorio irregolare diretto da Antonio Biasucci. Mentre già sono stati scelti i fotografi che parteciperanno alla seconda edizione di Lab, faccio due chiacchiere con Ilaria Abbiento sulla sua ricerca, In ogni luogo, inclusa nella prima edizione di questa iniziativa che, oltre a riscuotere consensi, ha permesso di far emergere il talento di otto fotografi napoletani. Ciao Ilaria, mi parleresti un po’ di In ogni luogo? Ero una bambina e ogni primo fine settimana del mese andavo a trovare mia nonna Sofia che viveva in campagna. Ricordo che un pomeriggio, mentre giocavo nella sua camera da letto, mi incantai a guardare l’immagine della Madonnina di Montevergine sul comodino accanto alla foto di mio nonno e alla collanina del rosario. Pur essendo molto piccola, ho sempre saputo che quella immagine stesse lì per proteggere il suo ricordo. Il senso di protezione misto all’aspetto devozionale e religioso di Napoli, nonostante mi appartenga così poco, essendo atea, ha sempre affascinato il mio interesse. Il mio progetto fotografico nasce tre anni fa, mentre passeggiavo per le strade di Procida. In quell’occasione rimasi in contemplazione davanti a un quadro di Gesù che mi osservava dalla vetrina di una panetteria. Fui talmente attratta da questa visione che scattai la prima foto che incoraggiò la mia ricerca nei tempi a seguire. Da quel giorno iniziai la mia indagine sulle immagini sacre nelle botteghe di lavoro. Nei quartieri più poveri si rivelano ovunque, “in ogni luogo”. Da qui il titolo del mio progetto fotografico. La custodia dell’icona religiosa negli spazi di lavoro fa parte della tradizione del popolo da tempo immemore, eppure con grande stupore, con la mia fotocamera a tracollo, ogni volta mi ritrovavo dinanzi a veri e propri altari inconsapevoli che onoravano un santo e sembravano apparizioni. Il quadro di Gesù in una pescheria, la Madonna di Fatima tra cioccolato e coloranti per dolci, Padre Pio tra pinze e chiavi inglesi. Con le mie foto ho voluto valorizzare l’aspetto surreale che evocano queste immagini, confuse con oggetti di ogni tipo e, al contempo, ho voluto raccontare un popolo che affida la propria vita, la quotidianità a questi “sacri custodi”. Le tue foto sembrano anche uno studio antropologico di Napoli e, in generale, del Meridione. Mi piacerebbe sapere se alle foto è legato qualche aneddoto particolare. E poi vorrei condividere una riflessione. Mi è piaciuta molto la foto in cui è presente un altarino di Cristo, in una bottega dove si aggiustano gli strumenti musicali. Il mio animo si addolcisce nel vedere Dio vicino a degli strumenti musicali, vicino alle corde. La musica è più facilmente associabile a qualcosa di divino. Poi però, quando lo sguardo si sofferma sulla foto in cui un altro Cristo sovrasta un banco di per’ e muss mi viene da sorridere. La foto è ugualmente bella ma credo sortisca un effetto più ironico se si pensa all’episodio della passione. Ma forse sono io a plasmare la visione. Tu cosa hai trovato in questa ricerca? Sono molto legata alla magia di questa città ed è per questo che spesso ho coniugato la mia fotografia con gli aspetti antropologici dei suoi abitanti e dei suoi luoghi. Nel progetto In ogni luogo si ritrovano diversi elementi che parlano di questa città, come quello romantico della melodia degli strumenti musicali nel laboratorio di un liutaio, la foto di Totò accanto alla Madonna nella bottega di un artigiano. Credo però che l’immagine più forte del portfolio è quella che ritrae un Gesù Cristo che si erge fiero sul carretto che trasporta appunto ‘o per e ‘o muss. Ti confesso che mi ha sempre fatto pensare al famoso dipinto di Leonardo da Vinci, L’ultima cena. Anche se viene da sorridere guardando queste foto, vorrei tanto che queste dissonanze potessero più che altro far riflettere sugli aspetti discordanti della città come due poli energetici opposti, una sorta di amore-odio, mia costante attrazione per la mia città. Pur essendo atea sei affascinata da questa forma di religiosità. Queste foto rappresentano un sondare nel metafisico, lo spirituale? Cosa ti ha portato a indagare su questa soglia? Due punti hanno contribuito alla riflessione sulla mia attrazione riguardo queste tipologie di immagini. Uno è sicuramente l‘espressione metafisica generata da elementi così surreali e talvolta dissonanti tra loro, e l’altro è stato considerare questi altarini come fossili del mondo “pagano”. Mi sono divertita tanto a esplorare queste botteghe, ad ascoltare i racconti degli artigiani legati all’immagine sacra che custodivano, a trascorrere un tempo meraviglioso nelle viscere di questa città, ma spesso ho provato una grande commozione quando ho capito quanto queste immagini potessero essere importanti per la vita e la quotidianità di questa gente. Mi sembrava di poter leggere una scritta invisibile: “Proteggimi (in ogni luogo)”. Dal punto di vista tecnico le tue foto sembrano collegarsi fra loro per il soggetto ma anche per la composizione tutta ben calibrata. Forse tutto questo è favorito dagli stessi oggetti disposti attorno agli altarini. Io ovviamente credo tu abbia seguito dei criteri nella tua ricerca. Quali sono? Ho curato molto l’aspetto compositivo delle mie immagini, ma non ho voluto spostare in alcun modo nessun oggetto. Tutto doveva necessariamente restare lì dov’era, le mie foto dovevano dare un senso di realtà assoluta di ciò che avevo vissuto e che avevo trovato in queste botteghe. Inoltre ho deciso di fotografare con il cavalletto, perché ho preteso che si leggessero tutti i dettagli delle mie immagini, anche il più piccolo, come se tutti gli elementi racchiusi potessero essere rivelazioni di un qualcosa, potessero raccontare. Progetti per il futuro? Passeggio, osservo, raccolgo idee, questo da sempre fa parte dei miei progetti per il futuro, so che tutto mi servirà a immergermi integralmente in un nuovo lavoro. Solo tanta voglia di esplorare prima di scattare la prossima fotografia.