Fotografia, Michele Pero: La dolce vita made in Germany Redazione 7 Luglio 2015 Artisti, I Protagonisti La dolce Vita Made in Germany è il titolo della mostra realizzata dal fotografo toscano Michele Pero. Ospitata al Castello dei Conti Guidi, a Poppi, in provincia di Arezzo dal 4 luglio e fino al 2 agosto, con la sua esposizione in 48 scatti, Michele Pero restituisce una Germania spogliata dai luoghi comuni. Scattate fra il 2012 e il 2014, le 48 stampe esposte (rigorosamente in bianco e nero alla gelatina d’argento) raccontano “l’altra Germania”, la Germania in cui l’organizzazione, l’efficienza, il rispetto per gli altri e per il bene comune sono semplicemente un modo per vivere meglio, valorizzare i momenti di svago e riposo, godersi la vita. Per Racna, abbiamo scambiato una piacevole conversazione con il fotoreporter. Abbiamo parlato di stereotipi e abbiamo ripercorso la carriera di Michele Pero fotografo di guerra e docente. Intervista di Michela Aprea. Festa mobile – Dolce vita germany – Michele Pero Ci piaccia o no, lo stereotipo è il metro attraverso il quale misuriamo la nostra esperienza del mondo. Con la Dolce Vita Made in Germany ha tentato di scardinare la visione superficiale che in molti, italiani e non, hanno del popolo tedesco. Ci racconta come si è articolato tale processo di decostruzione dell’immaginario collettivo? È vero, gli stereotipi sono il primo filtro attraverso il quale ci relazioniamo col mondo. È facile ricorrervi, perché si adatta velocemente a qualsiasi pensiero e altrettanto repentinamente ci consegna una risposta. Quella risposta è l’idea che, purtroppo, conserveremo per sempre. Il senso critico è duro da usare. Costa fatica, perché richiede una costante interazione fra nuove domande e ricerca di nuove risposte. Tiene costantemente impegnata la mente sull’analisi del mondo che ci circonda. Impone il rigetto di tante idee che si rivelano non corrette, prima di arrivare alla selezione di quella ritenuta definitiva. Il processo critico mi accompagna da sempre. Forse per questo ho intrapreso la carriera di fotogiornalista, forse è stato grazie al fotogiornalismo che ho potuto affinare tale senso. Conosco la Germania da oltre vent’anni, ma già da prima avevo nella testa “immagini” tedesche che mi erano state tramandate dai racconti di famiglia. Quelle primordiali idee della Germania si scontravano con le idee dell’immaginario collettivo, fatto di luoghi comuni che si passano di bocca in bocca. Così è iniziato il mio processo critico sulla Germania. Una sorta di rivisitazione storica della storia, della cultura, della geopolitica tedesca. Nei miei ultimi e frequenti viaggi in Germania mi sono chiesto più volte come sia stato possibile per un paese che partiva dalle stesse condizioni dell’Italia, alla fine della seconda Guerra Mondiale, di ritrovarsi così distante da noi, così lontano e ormai, inesorabilmente, non più raggiungibile. Perché loro sì e noi no? I luoghi comuni non mi sono mai piaciuti. È stato facile ripartire da zero, senza troppi preconcetti, e fare una analisi della Germania oggi. Il lavoro è la mia risposta stupefatta verso un altro luogo comune: l’idea che l’Italia sia il paese della dolce vita. È stato (ed è) interessante scoprire che ciò che rende dolce il vivere provenga non tanto da una posizione geografica di un paese e dalla sua produzione agroalimentare (sole, mare, pomodoro e mozzarella…), quanto dal rispetto sociale intrinseco di una comunità che rispetta le regole dettate dal buon vivere e in quelle regole permette a tutti di potersi esprimere, crescere, lavorare, mettere su famiglia, riposare, divertirsi, sentirsi accudito, protetto e tutelato. Pensandoci bene, non andreste a dormire tranquilli anche voi in una società così? Ecco che il bere una birra al “biergarten” diventa un momento dolce, perché alle spalle c’è una operosamente tranquilla giornata di sano lavoro, e davanti c’è un’altra giornata di crescita economica per tutti. Il bivacco di Mauer Park – Dolce vita germany – Michele Pero Si può considerare il lavoro fotografico che ha dato vita alla mostra come una risposta agli anni vissuti come fotoreporter di guerra? Il progetto è oggi l’espressione del mio equilibrio. Non a caso l’ho definita “la massima espressione della mia arte”. Qui dentro c’è tutto quello che ho sempre cercato nella fotografia, anche mentre ero in guerra. La mia formazione è umanista. Ho ammirato molto i fotografi francesi come Willy Ronis, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Izis (Bidermanas ndr), e tutti quelli della corrente dell’umanismo francese. Nelle loro fotografie si coglieva la gioia di vivere. Questa caratteristica mi ha sempre affascinato e l’ho ricercata continuamente, in qualunque contesto mi trovassi. Anche in guerra. Infatti, credo di aver realizzato foto atipiche di guerra: ho lasciato le lacrime, lo sporco, il sangue e le manifestazioni di dolore estremo agli altri fotografi. La guerra è un fenomeno che si può capire soltanto vivendolo. Purtroppo non ci sono film né libri che ti possano far capire quanto bestiale possa essere la condizione di uomini che si stanno letteralmente macellando. Non ci sono scopi, non ci sono traguardi. C’è solo l’attesa del buio eterno. Ho sempre pensato a Ungaretti in guerra, con la sua: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Eppure la guerra è stata una droga, che mi ha spinto ad andare sempre avanti, sempre più verso il combattimento. Finisce una e aspetti di tuffarti nella prossima. Credevo di avere chiuso col Kosovo, sono tornato in Siria nel 2012. La guerra è dunque la tempesta, l’opposto della quiete. Per cercare quello che sta nel mezzo, fra immobilità e azione massima, l’equilibrio, ci si deve allontanare dalla guerra per dedicarsi all’esatto opposto: la fotografia di paesaggio. Non a caso tanti fotografi di guerra si dedicano al paesaggio. Sei da solo con la tua macchina fotografica, che di solito pesa dieci chili e sta in due valigie, con un cavalletto che pesa quanto un bambino di otto anni, nessuno in giro, aspetti la nuvola o che il sole giri. Talvolta smonti dopo tre ore senza aver scattato. È un momento di contemplazione del mondo che sta quasi fermo per te, per farti riflettere sull’Universo. Don McCullin ne ha fatto la sua vita. Ha chiuso con la guerra e oggi scatta solo paesaggi. Anche Helmuth Newton si dedicava ai paesaggi fra una sessione e l’altra della sua moda provocatoria e rivoluzionaria. Credo che si senta la necessità di purgarsi con il paesaggio, dopo aver fotografato la guerra, per trovare l’equilibrio. In Germania ho trovato il mio eden fotografico, perché lì ho potuto ricollegare tutti i miei “fili pendenti”. Ho potuto mettere inquadrature rapide e rubate, d’azione, insieme alla contemplazione quasi paesaggistica dell’ambiente curato e creato ad arte dai tedeschi. Ho potuto esprimere il massimo della mia visione fotografica, su un soggetto immenso, che non si esaurisce con queste prime presentazioni, che mi da enormi soddisfazioni e mi permette di esprimere la mia idea di fotografia e giornalismo: creare delle belle immagini che, tutte assieme, rivelano una risposta diversa da quella da tanti accettata. Downtown Halep, quarters of Bustan al-Pasha e Sakhour, December 2012. The town is partially controlled by the brigades of the Free Syria Army. Snipers oblige to fast crossing open avenues. Some people try to continue their normal life in downtown, still occupying their houses, even if the majority have been left. MIGs and helicopters by Bashar Al Assad regime are continuously releasing rockets and barrel-bombs over the buildings. A quick look at the sky, some strikes, the blast and gray smoke lifts not too far over the quarter. Another building hit, some people wounded and injured will be soon added to the list. Dopo l’esposizione fiorentina, la mostra sarà fino al 2 agosto ospitata nel castello dei Conti Guidi di Poppi (Ar). Come è stato adattato l’allestimento al cambio di location? Si è dovuta operare una nuova selezione delle immagini presentate? Il chiostro della chiesa di Santa Maria Maggiore, location della prima esposizione, è un luogo storico, ma pur sempre un chiostro, con ballatoi che servivano d’affaccio alle celle delle monache. D’accordo col direttore di ZAP (Zona Aromatica Protetta, l’ex Casa della Creatività di Firenze, ndr) Lorenzo Zambini, avevamo optato per esporre una ridotta selezione di 20 opere, per non sovraffollare i ballatoi. L’allestimento scelto era d’effetto, sospeso al soffitto, con quadri “galleggianti” disposti nel mezzo del passaggio. I visitatori potevano girare intorno alle opere, che sembravano fluttuare nell’aria. Al castello dei Conti Guidi di Poppi abbiamo più spazio, ma importanti limitazioni agli allestimenti, imposte dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici. Le maestose vetrate di tutti i piani, risalenti al medioevo, con vetri fatti a mano e incastonati a piombo, non possono essere né aperte né chiuse. Non è possibile aggiungere altre fonti di illuminazione oltre a quelle minime già presenti nelle sale, per non compromettere la stabilità di dipinti e affreschi. Con l’assessore alla cultura, Elisabetta Corazzesi, abbiamo deciso di usare la sala Scuderie del castello, già attrezzata per ospitare esposizioni e dotata di impianto di illuminazione da galleria classica. Lì, non ci sono particolari opere che debbano essere protette dalla luce, né vetrate artistiche. Per cui abbiamo optato per un’esposizione classica, da galleria, con 48 opere. Serbian policeman with Kalashnikov – Kosovo, Pristina: a Serbian policeman watches over an Albanian protest in Pristina. Da alcuni anni è tornato a fotografare in pellicola e in bianco e nero. Un ritorno alle origini che coinvolge in maniera crescente molti fotografi professionisti. Il digitale è professionalmente mortificante? Il digitale non è mortificante di per sé, ma a me non piace affatto. Trovo invece mortificante l’iper-pressione incontrollata cui è soggetta la comunicazione fotografica e l’opera fotografica nell’era di Internet. La fotografia digitale è sicuramente un terreno da esplorare per coloro che sono interessati all’elettronica, all’uso di programmi quali Photoshop, e alla diffusione multimediale delle opere così prodotte. A me tutto ciò interessa poco. Ho conosciuto la camera oscura e la fotografia chimica nel 1984 e mi ha permesso di diventare esperto di tutte le tecniche chimiche, e soprattutto manuali, che muovevano il mondo della fotografia all’epoca. Nonostante abbia passato alcuni decenni in camera oscura, ho ancora tantissimo da scoprire. La manipolazione chimica dei materiali, pellicole, carte da stampa, emulsioni, sviluppi, è senza fine. Più esploro, più l’orizzonte della conoscenza si allontana e diventa vasto. Sono tremendamente affascinato dall’immagine che appare lentamente nella bacinella. Un’immagine che ho prodotto io, con le mie mani e la mia esperienza. E ancora prima della stampa, sono affascinato dalla sfida che mi viene posta dalla luce nel momento in cui devo esporre un fotogramma con la macchina fotografica. Da anni non uso che la mia esperienza per misurare la luce. Fra Ansel Adams (che adoro) col suo sistema Zonale, e il suo amico Edward Weston, scelgo il secondo, che fotografava guardando il cielo e decidendo a occhio l’esposizione da usare per le sue foto. Tale tecnica, “primitiva”, che evita l’uso di artifici, come esposimetri o microchip, mi permette di stare attaccato in modo carnale agli scatti che eseguo. So di essere molto più libero di tanti miei colleghi nel seguire il soggetto e nel decidere il momento dello scatto. Sono felice di questa libertà che mi permette di concentrarmi al massimo sulla fotografia che cerco e di dimenticare la tecnica, anche se solo per poche frazioni di secondo. Occhi sopra il muro di Berlino – Dolce vita germany – Michele Pero Ha insegnato per anni. Dal 2002 anche attraverso la scuola di fotografia professionale da lei fondata, “TheDarkroom”. Se la sente di fare un bilancio della sua carriera di docente? Alla luce di tale esperienza, può raccontarci com’è cambiato, negli anni, l’approccio dei suoi allievi nei confronti della fotografia? Scoprii l’insegnamento per caso. Un’opportunità offerta da una scuola fiorentina che cercava un sostituto all’insegnamento. Dopo qualche anno, mi ritrovai docente a tempo pieno di studenti che sceglievano di seguire le mie lezioni. Insegnare mi è piaciuto molto, finché ho potuto indicare la strada della fotografia professionale, della camera oscura, del bianco e nero. Vedevo gli studenti appassionarsi alla stampa alla gelatina d’argento, e questo mi riempiva di gioia. Poi sono arrivati Internet e i social network: Instagram e i “like” sui post sono diventati l’ambizione massima per quasi tutti i giovani. La fotografia professionale, nella forma in cui l’abbiamo conosciuta, è stata superata e la camera oscura caduta nel dimenticatoio. È scomparsa la figura professionale del photo editor, il direttore artistico dei magazine, solitamente fotografo di lungo corso: con una florida carriera alle spalle, sapeva se una foto funzionava e il perché. Da loro ho imparato le regole della comunicazione fotografica. Ho tentato di insegnare queste regole negli ultimi anni della mia esperienza da insegnante, ma la maggior parte degli studenti ha come riferimenti Facebook e Instagram. Eppure la fotografia è una forma di comunicazione universale. Ci sono regole che vanno conosciute, altrimenti si rischia di fare cose incomprensibili. Sono sempre meno gli studenti che si approcciano alla fotografia con spirito aperto e con volontà di apprendere. Con quelli che seguono questo metodo sono tuttora in contatto e con molti collaboro anche professionalmente. Quattro cerchi di perfezione – Dolce vita germany – Michele Pero Biografia di Michele Pero Michele Pero inizia la sua carriera di fotografo negli anni ’90 tra Firenze e Milano. L’amore per il fotogiornalismo lo spinge nei Balcani. Fotografa i conflitti che negli anni massacrano l’area, viaggiando in Kosovo, Croazia, Albania e Bosnia . Pubblica ed espone in Italia e all’estero. Nel 2012 è di nuovo in un paese in guerra, stavolta in Siria, durante i bombardamenti su Aleppo. Ha insegnato fotografia per oltre 15 anni. Nel 2002, ha fondato la sua scuola di fotografia professionale, TheDarkroom, che ha ceduto nel 2014. E’ tornato a fotografare in pellicola in bianco e nero ed alla camera oscura. Stampa le sue opere personalmente su carta baritata alla gelatina d’argento, ed espone dal vivo. Tra le testate con cui ha collaborato: Vogue; Il Corriere della Sera; Sette; La Stampa; Specchio; La Repubblica; Il Venerdì; Il Manifesto; L’Espresso. Tra le esposizioni realizzate, oltre a La Dolce Vita Made in Germany (esposta anche alla ZAP di Firenze), le personali: Nei Paesi delle Aquile (Esplorazioni, Sansepolcro, 2011); Kosova mon amour ( Friedensmuseum, Nuernberg, 1998-2000); Kosovo, I Care (I Care – Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, 1998-1999); Albanesi d’Albania (Metamultimedia – Sansepolcro, 1997). Info Mostra La Dolce Vita Made in Germany – Personale fotografica di Michele Pero Con il Patrocinio del Comune di Poppi (Arezzo) Castello dei Conti Guidi – Piazza della Repubblica 1, Poppi (Arezzo) Dal 4 luglio 2015 al 2 agosto 2015 Orari: lun – dom dalle ore 10 alle 19 Ingresso libero Info e Contatti: www.michelepero.it www.castellodipoppi.com Contatti press Responsabile Promozione e Comunicazione: Chiara Reale Mail chiara.reale81@gmail.com Tel (+39)3805899435