Intervista-racconto ad Assunta D’Urzo, per la mostra “Epifanie. Lab / per un laboratorio irregolare”, otto progetti per otto fotografi, un laboratorio e un maestro curato da Antonio Biasucci che presenta oltre 150 opere fotografiche.

Camminiamo nei vicoletti di Santa Lucia io e Giovanni, soffermandoci qua e là a fare qualche fotografia: il rione offre degli incredibili scorci. Il cielo si trattiene e dipinge di verde il mare. Arriviamo quindi a Castel dell’Ovo, dove ci aspetta Epifanie, una mostra di otto promettenti fotografi, risultato di un laboratorio sostenuto da una campagna di crowdfunding presentata qualche tempo fa al Madre. Nella buia Sala delle Prigioni ci accolgono due degli otto fotografi: Assunta e Fulvio. Ci invitano a metterci dei guanti bianchi e a sfogliare gli otto portfolio a forma di libro, poggiati su una specie di lungo scrittoio ben illuminato.
La sensazione piacevole di sfogliare quei libri e scoprire i progetti dei diversi fotografi è accompagnata dall’odore del mare che, forte e delicato, solletica le narici mie e quelle del mio amico. Assunta si avvicina e quando le comunico questa sensazione lei annuisce e aggiunge : è come se ci trovassimo in una biblioteca sul mare. Apro il suo libro e la prima immagine che io e Giovanni vediamo è una fotografia di tante piccole fotografie in formato tessera. In alcune di queste piccole foto riconosco il viso di Assunta, gli altri sono il padre, la madre e la sorella.

Uno sguardo familiare, raccontaci della tua opera.

Questo lavoro è nato in un momento in cui io ero in forte crisi, non solo in relazione alla fotografia ma anche nel privato. Avevo l’esigenza di capire innanzi tutto fotograficamente dove stavo andando, di capire la genealogia, le radici del mio sguardo. Allo stesso tempo, avevo bisogno di riformulare i contatti con la mia famiglia. Questo lavoro è una sorta di sandwich: unisco la mia materia umana con lo scatto fotografico. Spesso questi corpi, le loro azioni, i loro gesti hanno una misura, sono anche corpi nello spazio e sono il modo in cui io ho misurato lo spazio. Gesti banali e quotidiani che diventano però pregnanti. Penso che quando comincerò un altro lavoro, io terrò in considerazione queste immagini per ritrovare misure, masse corporee simili a queste

Quando cerco di ricordare delle persone care, spesso mi rendo conto delle cose che ho dimenticato: non ricordo il giorno o l’evento, non ricordo il perché. Quello che mi rimane è solo un flash, qualche particolare, il frammento di un movimento. Com’è strano…
Quindi è atemporale, è eterno. Tutto il resto si dissolve e rimane solo questo. Ti resta la freschezza delle lenzuola, la veste a righe, l’aria del braccio che si sposta.

Susy D'urzo  fotografata da Rossella Tomaiuolo

Susy D’urzo fotografata da Rossella Tomaiuolo

Nelle tue foto emerge una spessa grana…
L’alta sensibilità della pellicola, sì. A me piace la fotografia analogica perché mi sembra di sentire lo sforzo dei granuli d’argento, la materia fotografica che si sforza di combinarsi col materiale umano. Io sforzo molto i miei soggetti e sforzo molto la fotografia
Giovanni chiede: “Questa è tua sorella che dorme?”
Sì, dormiva. Come puoi pagare la fotografia di uno che non se ne accorge?

Le tue foto sembrano raccontare una storia, inducono a indagare, a chiedersi cosa succede. Quanto incide nel tuo lavoro, la volontà di raccontare qualcosa?
Raccontare è tutto. Raccontarsi è svolgersi, è capirsi. Siamo sulla stessa linea. La fotografia analogica e il bianco e nero mi aiutano a soffermarmi lì dove con l’occhio non riesco ad arrivare completamente, perché ti isolano l’oggetto fotografato. Poi ci sono questi gesti impositivi e strani allo stesso tempo, il braccio messo in modo particolare…

Una selezione dei lavori di Assunta D’Urzo

 

Anche la prospettiva di queste foto è particolare, e mi ricorda le opere di Degas, le inquadrature prese in prestito dalla fotografia, i suoi soggetti tagliati o presi da angolature strambe, anticlassiche. Le tue foto sembrano possedere la consapevolezza delle peculiari potenzialità del mezzo…
Sì, è la salvezza della fotografia. Degas mi piace da morire. Anticlassiche. Sono d’accordo.

Giovanni aggiunge: “Le tue foto sono tutte originali e si riconosce chiaramente il tuo occhio. Come questa in cui tu sei sul bagno…”
Questa sono io e questa è la foto che ha fatto partire tutto. Era un periodo difficile, mi sentivo profondamente inadeguata. In questo autoscatto non solo sono fuori frame e quindi fuori tempo, ma esco anche fuori dallo spazio vitale, esco fuori dallo spazio di questo bagnetto. Un momento di profondo squilibrio nel privato ed anche nella fotografia.

E questa foto con la scollatura di tua sorella in prima piano?
Questa è la presenza, l’esserci, non so cosa altro aggiungere…quando riempi un fotogramma di qualcosa significa: io ci sono.

Raccontami di quest’ultima foto col viso di tua madre…
Questa non posso raccontartela altrimenti piango.

Qual è stato il contributo di Antonio Biasucci?
Ci ha aiutato tanto senza però metterci fretta. Ti parlo di due concetti-chiave: immagini guida e gruppo che si autoalimenta. Antonio inizialmente ha visionato i portfolio e ci ha incoraggiato nella ricerca. Quando portavamo nuove foto lui ci consigliava di scegliere non in base a criteri estetici ma in base alla pregnanza di significato. Generalmente le mettevamo tutte stese in sequenza e poi le estrapolavamo. Sembrava uno spartito e questo modo creava una specie di ritmo, che era il ritmo della nostra ricerca. Poi, di volta in volta, al mucchietto selezionato si aggiungevano nuove foto fino quasi a creare un binario. Visionando le foto piccole avevamo il vantaggio della mobilità, potevamo muoverle e quindi avere una visione di insieme. La cosa più difficile è stata scegliere le foto da esporre: abbiamo rinunciato a foto che credevamo importanti, ma è servito. Poi c’è l’auto-alimentazione del gruppo: in un gruppo segui anche il lavoro degli altri, anche la ricerca degli altri diventa tua e se ti fermi tu, io ti vengo vicino e magari ti do un consiglio utile per andare avanti. Ad un certo punto c’è quindi un’affezione alla ricerca, l’affezione alla ricerca è anche affezione al tempo che ci impieghi. Questo tempo è stato spesso visto come un dinosauro pericoloso, come un tempo che non passava mentre noi eravamo ansiosi di arrivare. Biasucci invece ci invitava a prendere tempo, di tornare a ritornare, come diceva Pessoa. Poi, ad un certo punto, lo sguardo improvvisamente si svecchia. Quando l’immagine ti ha stufato cominci a vedere cosa ci sta dietro fino a trovare l’epifania. Quando un lavoro funziona c’è anche la giusta distanza tra chi lo vede e chi lo fa, cioè io non sono in vantaggio su di te che vedi la mia opera per la prima volta. Quando capisci questo il lavoro è pronto. Questo lo diceva anche un mio professore universitario: il racconto deve stare un metro da te e un metro pure da me.

In che senso Epifanie?
Le epifanie sono rivelazioni ed hanno un carattere che tocca la sfera di un vissuto, quasi di un ricordo che poi si va ad accostare ad un’immagine che tu vedi. Antonio ci ha raccontato spesso che alcuni eventi importanti non è riuscito a fotografarli, li ha solo vissuti. Poi però ha fotografato una pietra, ad esempio, e in quella pietra ha cercato quell’evento importante, ha cercato di far ritornare quell’emozione vissuta e che non era riuscito a fotografare.

Cos’è Lab?
Lab è la forma della mostra, è un’esperienza bellissima, è sociale, è la molteplicità degli sguardi, è i molteplici significati di questa città. Non è un caso che la mostra sia stata fatta in questa città, grazie ai fondi delle persone di questa città, ed è la prima volta a Napoli che una cosa pubblica è fatta dal pubblico. Lab è questo, fare il laboratorio. La mentalità laboratoriale secondo me dovrebbe essere diffusa.

Cosa vedi per te nel domani?
Io continuo a vedere la ricerca, devo ancora scoprire tante cose. Ho altri progetti che devo riprendere. Spero ci sia la possibilità di realizzare qualcosa di simile. Una ricerca congiunta all’interesse della collettività, di una collettività che deve riceverla. Non ho più il mito dell’artista ma mi piacerebbe essere un autore. Non voglio fare opere bellissime che poi alla fine non viaggiano oppure non comunicano.

 

Copywrite RACNA Magazine

Fotografie di Assunta D’Urzo

info mostra

Si chiama Epifanie la mostra-installazione, risultato della prima edizione del “laboratorio irregolare” di Antonio Biasiucci

Castel dell’Ovo – Napoli

fino al 2 giugno 2014

E-Mail info: alessandra.cusani@gmail.com

Sito ufficiale: http://www.comune.napoli.it

A proposito dell'autore

Collaboratore

Laureato in lettere, indirizzo storico-artistico e dei beni culturali, con tesi sul rapporto tra letteratura e fotografia, attualmente professore di italiano e storia in un itc. Appassionato di fotografia cinema e di Mario Bros., di bonsai e tartarughe di terra, di giochi da tavolo e cioccolato. Potenziale accumulatore seriale.