Comincia con questo articolo/galleria una rubrica dedicata ad arte e sport con i reportage fotografici di Paolo Manzo presentati da Anna Marchitelli.

Paolo non si è limitato a scattare foto ai volti e alle imprese sul campo dei rugbisti campani, professionisti e non. È andato oltre: ha indossato tuta e scarpette e, partecipando agli allenamenti, ha ascoltato le loro storie, cercato nei loro occhi, colto sguardi obliqui. E dal quadro che ha dipinto sono emersi evidenti connotazioni primordiali: corsa, spallate, placcaggi e spinte avvengono su campetti di cemento o nel terreno fangoso, ovvero il tratto distintivo spartano di un rugby tutto campano giocato senza alcuna precauzione e animato da un istinto primordiale di sconfitte e rivincite sociali e personali, vissute e combattute con il proprio corpo.

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Il rugby italiano è lontano anni luce da quello anglosassone, disciplina elegante ed elitaria praticata dalle classi agitate. È arcaico, incontaminato poiché imprese pubblicitarie e marketing non l’hanno ancora divorato, è una disciplina primitiva e salvifica per coloro che la praticano. Si, perché molti fra i giocatori, almeno nelle ore in cui si allenano e giocano, lasciano a casa tristi storie: disagi familiari, condizioni di povertà, difficoltà di integrazione. Per questo il rugby in alcuni casi riesce a salvare chi lo gioca: i ragazzi imparano a gestire l’aggressività e a non cedere al bullismo, ad affrontare la paura dell’avversario e a superare il dolore, interagire col gruppo e mettere da parte l’ambizione individuale per il bene della squadra, imparano a destreggiarsi fra le imprevedibilità della vita, cercando e trovando le soluzioni per raggiungere la meta, con generosità e correttezza. Perché tra fango e sudore il rugby si nutre di rispetto, dignità e umiltà, inderogabilmente.

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A Pomigliano d’Arco il campetto si trova vicino la discarica, in quello di Afragola il terreno è duro, a Fuorigrotta invece è a pagamento. Nel rugby campano non girano molti soldi, anzi molto pochi. I giocatori non guadagnano nulla, né indossano completi firmati, al massimo hanno la maglietta con il logo della squadra, al resto provvedono da sé. Durante gli allenamenti è strabiliante osservare lo spettacolo di colori e varietà: ognuno indossa quello che ha, tute consumate, t-shirt strappate, pantaloncini sporchi. Solo una cosa li accomuna: l’odore di fango e sudore, perché non lavare gli indumenti con i quali si allenano è la consuetudine. L’atmosfera in campo non ha il sapore delle grandi competizioni, gli spettatori sono per lo più parenti e amici e in campo ci sono semplicemente uomini che, uniti da passione e coraggio, si preparano ad affrontare una battaglia.

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Negli spogliatoi, spesso stanzoni in condizioni pessime, prima del match i giocatori (di età anche molto differenti) parlano poco, si concentrano, il contagio di ansia e grinta è nell’aria per motivarsi a vincere ed è parte del gioco. Una volta in campo sono pronti a lottare uniti: un giocatore ha sempre il sostegno della squadra, non viene mai lasciato da solo nelle trame difensive degli avversari.  Così quell’uovo indomabile sempre in movimento e mai trattenuto diventa oggetto di contesa tra i rugbisti che escogitano raffinate strategie per conquistare la palla.

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La mischia è l’azione che maggiormente incarna il pathos del rugby, almeno per gli spettatori: otto giocatori per squadra si dispongono in modo da formare due schieramenti contrapposti, così quintali di muscoli legati fra loro premono con forza per fare uscire senza toccar con le mani la palla dal retro della mischia.

Intenso il momento del placcaggio, quando si atterra il giocatore in possesso della palla, la percezione di assistere a una vera e propria lotta antica è forte ed è ciò che rende maggiormente partecipi al match: placcare restituisce la sensazione d’aver giocato, al di là del risultato.

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Vittoria e sconfitta quasi si annullano nel terzo tempo: le due squadre si incontrano a un banchetto per mangiare e bere insieme. E tra grigliate di carne, vino e birra, senza troppo preoccuparsi dell’alimentazione più adeguata per gli atleti, festeggiano la partita appena conclusa in un clima cordiale che diverte e coinvolge.

Rispetto ed etica, non solo coraggio o aggressività seppur sportiva, questo è il rugby. Ed è così anche in Campania dove i giocatori sono relegati ai margini e la cui esistenza è sconosciuta ai più, non essendoci l’interesse né a prepararli dal punto di vista atletico – molti hanno sì la stazza, ma non sono allenati – o psicologico, né dei media e degli spettatori locali che seguano gli incontri.

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C’è chi gioca come professionista seppur in serie minori, ma la maggior parte degli atleti apprende questa disciplina giocando e sperimentandosi da autodidatta.

Ma la tenacia di chi vive vite non semplici e abita in zone problematiche e nonostante tutto crede in uno sport non per soldi, non per fama, ma per il solo desiderio di condividere, allontanarsi dalla strada e stare insieme, non è casualità, è talento. È storia da raccontare, come il nostro giovane reporter ha fatto, fotografando prima le persone, poi i rugbisti.

Biografia di Paolo Manzo

Paolo nasce a Napoli l’8 Giugno del 1986. Vive e ha vissuto da sempre in periferia, non molto lontano dal cuore della città di Napoli, ma abbastanza da acquisire quella sensibilità verso l’aspetto più profondo dell’essere umano, propria di chi vive ai margini di una grande metropoli.
Lavora in una situazione ambientale in cui la maggior parte delle persone vede la fotografia unicamente come il mezzo per immortalare i momenti significativi della propria vita, dimenticando la sua componente poetica come strumento per esprimere passioni e sentimenti.
Dove, quindi, se non in periferia, si possono meglio trovare quelle emozioni, quelle pulsioni contrastanti, quelle passioni che danno risalto alla realtà nuda e cruda, la stessa che viene fuori dai volti bagnati dalla fatica e dalla tensione di coloro che praticano lo sport.

Paolo si è addentrato nelle viscere delle varie realtà sportive-aggregative dell’hinterland e ha voluto tirar fuori, come da un profondo pozzo, tutta quella rabbia, passione, agonismo, quell’umanità che si butta, attraverso il sudore, sul fango di un campo di rugby.
Lo sport per sfuggire alla solitudine, alla vita di strada, lo sport per stare con gli altri, per non sentirsi soli nel deserto periferico, lo sport per sfogarsi e confrontarsi in modo sano, lo sport per salvarsi.
Con la sua tenacia, il suo spirito di adattamento, la sua voglia di sognare, si consacra figlio della periferia; fa esperienza in vari studi fotografici, dove mette particolare attenzione all’aspetto tecnico; diviene assistente alla fotografia; compie vari lavori fotografici che spaziano dalla cerimonia al glamour, al reportage, ed è proprio in quest’ultimo che trova la sua maggior forma espressiva. In tutti i suoi lavori però, che siano essi di moda, di cerimonia o di reportage, c’è sempre quel filtro naturale che analizza la realtà attraverso gli occhi di un uomo di periferia.

 

 

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