Il 27 settembre 1967 veniva inaugurata, alla Galleria La Bertesca di Genova, la mostra Arte povera Im-Spazio, curata da Germano Celant.
La mostra costituì il punto di confluenza del lavoro e delle ricerche di alcuni artisti quali Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Giulio Paolini e altri, unificati dall’intuito e dalle idee di Germano Celant.

Articolo di Giuseppe Spena

L’espressione stessa arte povera fu coniata da Celant in quella occasione e stava ad indicare un tipo di ricerca artistica che rifiutava il sistema di produzione capitalistico-industriale e le dinamiche culturali ad esso collegate. Una ricerca che, nelle parole dello stesso Celant, si incentrasse sui “processi di pensiero” alla base della creazione e della fruizione dell’opera d’arte e non “implicasse necessariamente l’esaltazione dei prodotti di consumo”.

Per capire l’importanza e la peculiarità di questa posizione bisogna considerare il contesto storico.

Nel 1964, alla Biennale di Venezia, fu assegnato a Robert Raushenberg il premio come miglior artista straniero. Questo segnò la definitiva affermazione della pop art americana a livello internazionale, a scapito, principalmente, delle ricerche artistiche europee.
A partire dalla seconda metà degli anni ’60, poi, sempre dagli Stati Uniti, iniziò a diffondersi un nuovo movimento artistico, il minimalismo, che vedeva tra le sue principali caratteristiche “la qualità impersonale del processo generativo delle opere – il loro carattere seriale, industriale”.
Pop art e Minimalismo, dunque, avevano in comune due elementi fondamentali: 1) la provenienza culturale marcatamente americana (anche se la pop art era nata in Inghilterra); 2) il fatto di avere entrambi un rapporto dialettico con il sistema produttivo capitalistico-industriale.
Il punto di vista teorico singolare dell’Arte Povera fu attaccato da diversi fronti. La critica americana che incentrava la sua riflessione sulla dialettica tra modernismo e anti-modernismo, vide nell’Arte Povera le stesse contraddizioni (tra slanci progressivi e ripresa di valori obsoleti) che avevano caratterizzato i movimenti artistici italiani degli anni precedenti (in particolare il futurismo).
Altre critiche (durate fino ai nostri giorni) vertevano sull’incapacità dell’Arte Povera di costituire una vera opposizione al sistema commerciale dell’arte, in quanto i suoi artisti – e lo stesso Celant – agivano all’interno di circuiti culturali preesistenti e consolidati (gallerie, musei, riviste, manfestazioni artistiche ecc.).

Arte povera

Jannis Kounellis – Museo MADRE, foto di Viviana Rasulo

A distanza di cinquanta anni dalla prima mostra alla Galleria La Bertesca di Genova, si può affermare che i nuclei teorici e contenutistici sono ancora attivi. L’Arte Povera è, prima di tutto, un particolare tipo di approccio metodologico e attitudinale che privilegia il carattere performativo, dinamico e partecipativo dell’opera (anche da parte del fruitore), a scapito della fissità immortale dell’arte tradizionale. Attraverso l’uso di materiali fluidi e plasmabili (quali elementi naturali ed organici), riesce a porsi in connessione con ambienti ed epoche differenti.
Alla base di questo modus operandi vi è, non solo una concezione di arte, ma anche di progresso, tipicamente europea, secondo cui ogni nuova scoperta consta di elementi frantumati e di rovine storiche, impregnate di memoria e di tradizione e attraversate da crepe, prodotte da cataclismi umani e naturali. Un’idea di progresso, dunque, che non è semplicisticamente lineare e che non rimuove da sé qualsiasi aspetto psichico.

In un contesto culturale, quale quello odierno, in cui è consuetudine diffusa consumare oggetti tecnologici, raffinati, asettici e impenetrabili, l’Arte Povera attua il disvelamento delle strutture produttive ed energetiche.
A un certo tipo di riflessione che si pone come “scientifica”, totalizzante, conclusiva, oppone un discorso in cui siano manifeste le tracce dell’enunciazione. L’Arte Povera recupera la dimensione soggettiva, il racconto individuale, il peso e la fragranza dei materiali, la sinestesia, le aporie tipiche della percezione sensoriale.
Di fronte alla “macchina perfetta” del progresso, incapace di produrre errori (o, forse, incapace di guardare dentro i propri errori e disfunzioni), l’Arte Povera rivendica la possibilità di occuparsi di ciò che accade ai margini del sistema, di ciò che viene lasciato indietro e prodotto dalla risacca del sistema stesso, di guardare dentro l’abisso, sia esso rappresentato dall’11 settembre o da barconi carichi di esseri umani alla deriva nel Mediterraneo.

 

Credits – le foto in questo articolo sono di Viviana Rasulo, scattate come omaggio a uno dei padri dell’arte povera, Jannis Kounellis, scomparso nel mese di febbraio 2017.

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