HomeNewsAngiolo d’Andrea: l’eterna letizia di una mente candida, in mostra a Pordenone Giordano Mare Aldo Saulino 26 Giugno 2014 News Cattedrale di Palermo tavola, 14×18 cm Collezione privata, Rauscedo (PN) “La poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico.” Scriveva Giovanni Pascoli nelle prose del Fanciullino nel 1907 ed è ancor oggi un’ottima definizione per la cosiddetta arte “decadentista” sviluppatasi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Una mostra a Pordenone (che la famiglia Bracco, ai vertici di una delle storiche e più importanti multinazionali farmaceutiche con sede in Italia, cercava di organizzare con l’omonima Fondazione da oltre settant’anni – e svoltasi una prima volta a Milano nel 2012) recupera la memoria di uno dei protagonisti dimenticati di quel periodo in Italia, Angiolo D’Andrea, nella terra d’origine dell’artista, presentando a catalogo quindici opere in più rispetto alla precedente rassegna milanese. Tutto si deve agli sforzi collezionistici di Elio Bracco, il fondatore della “casata”, il quale scrisse allo scultore Riccardo Fontana, amico dell’artista, a proposito di quello, nel 1947: “Tutti i quadri del povero Angelo D’Andrea sono stati salvati e sono in mio possesso. Mi riprometto il prossimo anno di fare una mostra postuma a Milano, dopo che avrò preparato un catalogo generale di tutte le sue opere. Se avrò bisogno di qualche informazione, vi scriverò perché, come ebbi a dirvi a suo tempo, è mio vivo desiderio che rifulga l’opera di questo grande maestro.” Gratia plena tela, 115×170 cm Collezione Famiglia Bracco, Milano Per un motivo o per un altro, quella mostra non riuscì mai a realizzarsi prima dei giorni nostri e oggi assume significativamente come titolo il nome stesso dell’artista. Tenutasi nella Galleria d’Arte Moderna “Armando Pizzinato”, è stata allestita da Luca Rolla e Alberto Bertini, inaugurata il 10 aprile, chiuderà il 21 settembre (la Galleria è aperta dal Martedì al Sabato, dalle ore 15,30 alle 19,30; Domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 15,30 alle 19,30). Incendio a Telve tavola, 105×155 cm Collezione Famiglia Bracco, Milano Non è possibile parlare in maniera significativa di D’Andrea senza prima parlare del periodo storico e sociale in cui la sua arte trasse fermento e sviluppo: di quell’Italia borghese, ottimista e in crescita, i cui progressi economici rendevano centrale nell’assetto socio – culturale del paese il “Triangolo Industriale Milano – Genova – Torino” e facevano dimenticare (o fingere di dimenticare) le scorie della sofferta unità raggiunta da meno di cinquant’anni. Contemporaneamente in Europa, tutto è sensualità, esotismo ed eleganza: nel nome dello Jugendstil si sono consumate le secessioni di Monaco, Vienna e Berlino e tutte hanno assunto caratteri programmatici di arti “di nuova generazione” e “nazionali”. Tali influenze giungono anche nel “Belpaese” ed è necessario che sia a Milano che il massimo critico di quest’epoca, Camillo Boito, raccogliendo i resti della Scapigliatura Milanese, cerchi di tracciare le linee guida di una nuova arte interamente “italiana” e al passo con quei tempi di tecnica e decorativismo, fondando riviste come Arte italiana decorativa e industriale. Proprio realizzando illustrazioni di motivi decorativi per questa rivista, debutta appunto Angiolo D’Andrea, allora giovane pittore e disegnatore, appena arrivato in città dalle campagne di Rauscedo, nel pordenonese. Vaso di Murano con pesci e conchiglie, 1925 circa, olio su tela, 80X95 cm Milano, Collezione Famiglia Bracco Nato nel 1880, dopo una prima formazione artistica nelle terre d’origine, ancora sotto il segno dell’accademismo di un Michelangelo Grigoletti (già maestro di Favretto e Zandomeneghi), il giovane D’Andrea era stato a Napoli, per il periodo di leva, quindi a Padova e infine a Milano, dove si trasferisce stabilmente nel 1906, e proprio nel 1907 esordisce nell’Esposizione di Primavera de La Permanente, in quegli anni il più rinomato Salon meneghino. Nei quindici, vent’anni successivi il D’Andrea ottiene i suoi maggiori successi, artistici e commerciali: le decorazioni architettoniche e i mosaici per due negozi della Galleria Vittorio Emanuele, il negozio American Shoe (1910, oggi perdute) e soprattutto il bar Camparino – Zucca (1915), per l’androne di Casa Berri – Meregalli (1914), una delle più note opere milanesi dell’ancor giovane architetto liberty Giulio Ulisse Arata (che a Napoli realizzerà poi Palazzo Mannajuolo, il Lotto Zero e le Terme di Agnano, tra le altre cose) e per Villa Erba a Cernobbio, dove Luchino Visconti girerà il film Ludwig. Nel ’19 partecipa alla Prima Esposizione Lombarda di Arte Decorativa, esporrà poi varie volte a Brera e nel ’22, giunto finalmente alla Biennale di Venezia, espone il suo capolavoro, il quadro Gratia plena. Nello stesso 1922, però, le “Camicie Nere” marciano su Roma e il Re conferisce a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Gli eventi precipitano in fretta, comincia il “Ventennio” fascista e perfino gli intellettuali sono costretti ad allinearsi ai valori politici del regime. Il tradizionale valore estetico della gioventù come età di pura innocenza si ammanta, con l’arte dei Futuristi e con la retorica di Marinetti e Papini, di violenza e aggressività. Come d’incanto era finita un’epoca e il maturo D’Andrea non si riconosce più in quegli ideali, nella realtà di quegli anni: finisce con l’isolarsi sempre di più, sopravvive vendendo nature morte commerciali e facili ritratti femminili. L’ultima commissione importante, forse già procuratagli da Elio Bracco, le vetrate per la Chiesa del nuovo Ospedale Maggiore di Niguarda (1938), sono un fallimento e le immagini, concepite con grande sforzo di compromesso coi nuovi valori estetici, rimangono mestamente sui cartoni. Malato e dimenticato, D’Andrea si ritira nella natia Rauscedo nel 1941 e cercherà, con la mediazione del Fontana, uno dei pochi amici rimastigli, di trovare un compratore per le numerosissime opere che ancora conservava e lo troverà, poco prima di morire nel 1942, proprio in Bracco, suo massimo ammiratore. La Cattedrale di Castell’Arquato, 1925 circa, olio su tavola, 100X95 cm Milano, Collezione Famiglia Bracco Varrebbe la pena di visitarla anche solo per il confortevole rifugio che le sale, fresche e correttamente illuminate, della Galleria Pizzinato riescono a dare in queste afose giornate di giugno. Oltretutto, Rolla e Bertini hanno fatto un lavoro diligente: la mostra si articola in sette sezioni didattiche, articolate in un itinerario per nulla faticoso, in cui abbondano schede e pannelli informativi, in italiano e in inglese, senza però soffocare le opere. Si comincia con i pannelli biografici dell’artista, quindi nella prima sezione sono raccolti o riprodotti in gran parte i disegni di D’Andrea per la rivista Arte italiana decorativa e industriale: se ne possono apprezzare le doti di disegnatore dal tratto deciso e forte, ma al contempo veloce e raffinato e comprendere il debito intellettuale nei confronti di Boito, la futura ricerca dei valori strutturali della pittura (e della scultura) nell’architettura e al contempo del carattere pittoresco dell’architettura. La seconda e la terza sezione sono interamente dedicate a sviscerare questi temi. Colpiscono l’immaginazione non solo le monumentali vedute del coro del Duomo di Milano o della Cattedrale di Castell’Arquato, ma anche quelle dei monumenti arabeggianti della Sicilia, che D’Andrea visita varie volte tra il ’15 e il ’18. Le vedute del Duomo di Cefalù o della Zisa di Palermo sono veri crogiuoli di colori pastosi e vivi, assai densi, che regalano alla visuale dell’utente, posto alla giusta distanza dal quadro, impressioni incredibilmente vivide. C’è in questi quadri qualcosa che rimarrà anche nella produzione successiva del D’Andrea, qualcosa che va oltre il tonalismo della tradizione veneta in cui s’è formato e il gusto per l’esotico esornativo ispirato dal Boito, qualcosa che è figlio della luce piena e misteriosa della Sicilia e che forse si è sviluppato metabolizzando la coeva e vitalissima arte napoletana, conosciuta probabilmente nel 1902-03 (le tonalità de La Zisa fanno molto pensare a quelle di molti quadri di Antonio Mancini). Monte innevato tavola, 91,5×122 cm Collezione Famiglia Bracco, Milano La quarta sezione tratta invece delle pitture e dei mosaici, squisitamente déco (tranne i classicisti affreschi per la volta di Villa Erba) che D’Andrea ha realizzato per i vari progetti architettonici in cui è stato coinvolto e una proiezione video ricostruisce anche quelle che sarebbero potute essere le vetrate per l’Ospedale Maggiore di Niguarda, in cui il gusto decadentista e sacrale del D’Andrea va in difficoltà con le esigenze dello strutturalismo “neoclassico” italiano degli anni ’30. Le tre sezioni successive sono di certo le più interessanti, incentrate sulle opere più ambiziose del D’Andrea, realizzate tra gli anni ’10 e’20: gli evocativi dipinti di ispirazione sacra e i paesaggi, intrisi di spiritualità. In questo periodo, come tanti pittori di area lombarda e di sentimenti crepuscolari, anche D’Andrea aderisce al divisionismo, quella possente corrente pittorica italiana, corrispondente al pointillisme francese di fine Ottocento, che prevede la costruzione dell’opera attraverso l’accostamento di piccoli tocchi di colori puri. Regina, prima metà anni Venti, olio su tela, 130X114 cm Milano, Collezione Famiglia Bracco I risultati del pittore di Rauscedo sono diseguali e, talvolta vi emerge una certa sciatteria, specie nelle opere più tarde, forse già frutto dell’ansia e della frustrata sfiducia di un artista consapevole del proprio declino. Eppure diversi sono i capolavori. Memorabili i due oli su tavola rappresentanti La visitazione in cui le figure slanciate ed eteree di Maria e di Anna sono spiriti di pura luce e brillano purissime nei paesaggi di un Medioevo metafisico, nel rigoglio di una primavera scintillante. Ritratto di nobildonna tavola, 130×60 cm Collezione privata, Rauscedo (PN) Al piano di sopra della galleria, la stessa soprannaturale atmosfera, debitrice di quel filone fantastico che, da Böcklin, Redon o Puvis de Chavannes, giunge alle “Secessioni” mitteleuropee, ma recupera ancora qualcosa dei tratti nervosi dell’arte di Tranquillo Cremona, pervade il goticheggiante Regina, dove angeli davvero asessuati con ali di farfalla suonano liuti e viole al cospetto della Vergine e del Bambino. La più autentica cifra stilistica del D’Andrea sembra essere quella di una sorta di stasi mistica: l’Incendio a Telve, ricordo della partecipazione nel ’16 del D’Andrea alla I Guerra Mondiale fra i monti della Val Sugana, il paesaggio, costruito su una gamma di toni rossi e violetti, sembra crepitare tutto nel fuoco che devasta la borgata, ma manca ogni traccia di drammaticità. Visitazione tavola, 130×130 cm Collezione Famiglia Bracco, Milano Il capolavoro è certamente Gratia plena, non solo per la gustosa ricostruzione architettonica della scena, ma soprattutto per il monumentale rovere su cui “fioriscono” cherubini. Il livello di solare simbolismo è alto e D’Andrea, più volte a Roma, deve aver senz’altro meditato sulla lezione di Gaetano Previati, ma guardando Gratia plena (il cui riferimento alle Cattive madri appare quasi scontato) e vari paesaggi di settentrionali montagne, ci si accorge che il modello principale è fuor di dubbio quello di Giovanni Segantini. Del resto, Segantini è stato un grande riferimento per l’intera generazione di artisti nati negli ultimi decenni dell’Ottocento, come ancora nel ’35 Carlo Carrà ammetteva: “Giovanni Segantini ha diritto a un posto durevole nella nostra memoria. È stato, a parte la teoria del divisionismo e ogni questione di tendenza, per molti anni il centro di attrazione della gioventù italiana alla quale noi appartenevamo; è stato l’eroe, l’idolo della nostra fanciullezza. Si giurava sulla sua arte come il vangelo della vera pittura moderna.” Le ultime sezioni della mostra si occupano delle nature morte e dei ritratti femminili del D’Andrea, dove pure si può ancora notare qualcosa di interessante, come il Ritratto di nobildonna degli anni ’10 che rivela una discreta attenzione per i ritratti femminili di Moreau, Klimt o von Stuck, affini per la sensualità conturbante e oscura. Segue una sezione dedicata ai trionfi della famiglia Bracco, senza la quale la mostra non sarebbe mai esistita e l’opera del D’Andrea sarebbe oggi forse del tutto perduta, quindi si chiude con la ricostruzione della scenografica Natività: un invito, in fondo, ad andare a guardare la pala d’altare originale nella Parrocchiale di Rauscedo, poiché una buona mostra non esaurisce mai gli stimoli che offre in sé stessa, ma sempre suggerendo nuove opportunità. Vetrata della Sala dei Benefattori dell¹Ospedale Niguarda a Milano (dedica a Emilia Gatti Castoldi), 1938 Articolo di Giordano Mare Aldo Saulino info mostra Angiolo d’Andrea Galleria d’Arte Moderna “Armando Pizzinato” a cura di Luca Rolla e Alberto Bertini, dal Martedì al Sabato, dalle ore 15,30 alle 19,30 domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 15,30 alle 19,30 fino al 21 settembre.