“L’arte è in tutte le cose”, “il mondo è la più grande opera d’arte esistente”, “quell’uomo è un artista in ciò che fa”, “fai della tua vita un’opera d’arte”, “l’opera d’arte è figlia del suo tempo e del suo contesto sociale”, “l’arte è politica”, “l’arte per il gusto dell’arte”, “ma io non la capisco l’arte contemporanea”, “l’arte è un problema”. Si dicono tante cose sull’arte, ma l’arte a che serve? Perché parlarne tanto? Forse non lo si fa poi davvero così tanto, se l’Istat ci rivela che, al 2014, sono il 72% gli Italiani che non sono mai andati in un museo. Eppure non c’è persona, dal politico in giacca e cravatta alla maestra pensionata di provincia, che non manchi di ricordare che l’arte potrebbe essere “il petrolio dell’Italia”, a causa del grande potenziale economico del turismo culturale. È quindi l’arte una leva economica? In verità, una vecchia regola negli studi di economia della cultura, il cosiddetto Morbo di Baumol, sostiene che gli enti che lavorano nell’arte e nella cultura, essendo vincolati all’utilizzo di determinate tecnologie senza poterle rinnovare (una bella riproduzione in grafica 3D di una tela del Caravaggio non è Caravaggio), non possono generare economie di scala e sono destinate ad andare in stagnazione o in perdita. Il museo col maggior numero di visitatori e col più grande fatturato al mondo è senza dubbio il Louvre di Parigi. Già nel 2011 aveva 9 milioni di visitatori e realizzava un fatturato di 94 milioni di euro. Tuttavia generava anche perdite per 168 milioni, sempre ripianate dai finanziamenti pubblici, e il trend non si è ribaltato negli ultimi cinque anni. Non voglio arrivare agli estremi dell’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti per cui “con la cultura non si mangia”, ma forse andrebbe riconosciuto che l’arte non serve per fare soldi. In effetti, non è questo il suo ruolo. È il nostro rapporto personale con l’opera d’arte (sia quando essa è un oggetto che quando è una performance) ciò che dovrebbe interessare. Qui entra in campo l’estetica, il riconoscimento sensoriale dell’opera d’arte che ci appare di fronte. Immanuel Kant diceva che il giudizio estetico è un giudizio riflettente, nel senso che è un giudizio attraverso il quale riflettiamo noi stessi, il nostro animo, sulla realtà che ci appare tutto intorno e che non conosceremo mai fino in fondo. È un giudizio slegato dalla logica, soprattutto dai rapporti di causa ed effetto: è un giudizio libero e assoluto. Ecco, quindi, la ragione dell’arte. Essa è un esercizio di libertà. Questa libertà non è solo dell’artista, che può esprimere la sua propria creatività come meglio intende e crede, ma anche dello spettatore, dell’uomo comune, che si ritrova libero, per un preziosissimo e fugace attimo, di affrancarsi dalle preoccupazioni, dalle noie, dagli affanni e dalle necessità contingenti. Trova invece l’occasione per riconoscere, riflesse nell’opera, le sue personali emozioni e la sua personale visione dell’abisso, dell’assoluto, dell’incanto. Ritrova se stesso. In quanto libertà pura, l’arte è inutile, non serve a niente. Per questo ci salverà. Articolo di Giordano M.A. Saulino – illustrazione di Gianmarco De Chiara