Se è vero con Roland Barthes che possiamo considerare alcuni degli oggetti che definiamo automobili come i soli manufatti che si assimilano alle costruzioni e al modo di abitare la durata e la solidità degli spazi che hanno conosciuto le antiche cattedrali, allora questo è tanto più vero oggi che la premonizione di Barthes si è avverata e resa fisicamente disponibile. Al Guggenheim di Venezia entra finalmente nelle collezioni permanenti un’opera del designer italiano Flaminio Bertoni. L’attribuzionismo e la filologia del metallo hanno riconosciuto e stabilito che l’opera in questione non è stata concepita per uno sviluppo industriale, ma che esiste in un’unica veste, un unico esemplare che Bertoni aveva da sempre destinato alla creazione d’arte. L’opera è datata dicembre 1963, pochi mesi prima della scomparsa, il 6 febbraio del ’64, di uno dei più importanti stilisti d’auto al mondo.

Sappiamo che il design e la sartorialità della lamiera e dell’acciaio hanno rivaleggiato con le calzature e le carrozze dal Seicento, da Berlino a Gibilterra, fino a produrre i primi esemplari dell’idea di carrozzeria; in quest’opera di Flaminio Bertoni dobbiamo ammettere che lo strappo è definitivo e l’accesso al dominio dell’arte tout court è avvenuto, senza equivoci di sorta. L’opera esposta, esposta innanzitutto a una carezzevole geometria di luci, è infatti una vettura, un’automobile, la prima concepita, edificata e destinata all’arte. Lo studio di Flaminio Bertoni mira a liberare le linee dell’automobile classica dalla sua destinazione industriale, ma più ancora dalla percezione che abbiamo dello spazio che essa occupa come spazio di un oggetto opaco, immediatamente destinato all’uso. Anche quest’opera esposta è perfettamente pronta al movimento, dotata di motore, gommata e superba nella sua concezione motoristica e meccanica. È la contemplazione che suggerisce e la destinazione museale raggiunta a restituirle il dominio dell’arte. Lo spazio che la espone, niente di meno che come in un salone d’auto, qui diventa una dichiarazione del suo mistero, del suo non esserci nello spazio se non come forma, linea e mistero. Un manufatto autonomo, allestito ed equipaggiato dall’opera di interi atelier, di maestranze e di officine e che non ha un nome, non una sigla, segni che invece hanno le vetture numerabili e seriali della storia.

Illustrazione di Roberta Garzillo

Illustrazione di Roberta Garzillo

La cosa museale, la suggestione oggettuale che ci sta davanti è percorribile, sinuosa e solida come una scultura a tutto tondo, è però smaterializzata, di vetro, aperta di vuoti e di pieni come un’architettura; e conosce le stoffe, le preziosità e gli oggetti minuti e microscopici delle arti decorative, tutte fuse insieme. Questa scalare, vertiginosa progressione di assemblati continui, non saldati ma unici nel movimento, è metallo puro ma bagnato dalle luci, dall’idea che ci suggerisce di tatto e di contatto. È superficie fredda, e liscia, non condizionata da mutamento, offerta alla rotondità efficiente, compatta, protesa, perfetta. Ma è anche una forza del passato, ricordo del Rinascimento, modulata e tripartita pala d’altare, scanalatura e proporzione grigliata, cella e tempio insieme. Così come gli interni sono eredi dei nostri arredi sacri, come il cruscotto che allude e sa di essere la continuazione di un antico pallio papale. La linea continua e prospettica conosce la nostra tradizione dei giardini, erede di Tivoli e di Adriano.
Ma non immaginatela, non fatelo perché la sua natura non è quella di essere immaginata. Forse può solo suggerirci che la sua presenza riempie lo spazio per la prima volta in quelle forme; le sue pieghe, le sue dimensioni e proporzioni sono tali da indurci alla contemplazione, e in fine all’emozione, mai immuni da un’attirante morbosità. La sua compiutezza, la vasta superficie ultimata e riflettente che offre allo sguardo l’infinito chiuso e il perimetro perfetto; l’assenza di giunture, di fessure, di vani che dall’esterno diano all’interno provocano un’estasi rovesciata, trattenuta, sollevata solo dal pensiero di aprire squarci nella carenatura immobile. L’idea di provocarle un incidente subentra poco dopo, di attorcere tanta levigata res extensa. Tuttavia non crediate che l’auto sia eccessiva nelle linee e nella ricchezza, sia degli interni che degli esterni. Un risultato così ipnotico è sommo e non stanca, ma anzi ci lascia come un’avidità nello sguardo proprio per la sua linearità essenziale, per l’asciutta configurazione degli interni, sportivi e quasi plastici, spogli, dal congegno a vista. Non diversi gli esterni, nudi, sinuosi, belli come l’orlo del teatro di Marcello, e di una linea che conserva la rigidità e la morbidezza classiche, il travertino e il titanio, il nylon e le plastiche del bronzo.

 

Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.

A proposito dell'autore

Studioso di letterature comparate è autore di prose critiche su oggetti immaginari, dalle opere d’arte pubblicate in esclusiva per Racna alle recensioni di film mai esistiti apparse su «Le Parole e le Cose» e «Nazione Indiana». Del 2017 il suo primo libro di poesia Per l'odio che vi porto edito da Oédipus. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich.