Ricorderete le 512 hours che Marina Abramović ha vissuto e trascorso in un’opera allestita alla Serpentine Gallery nel giugno-agosto 2014. Nel padiglione estivo dei Kensington Gardens era preparata per le nostre vite una cella di riverbero e di isolamento. All’ingresso gli ospiti consegnavano tutti i loro effetti personali, indossavano cuffie insonorizzanti e sperimentavano, come in carcere, uno spazio di libertà. In una prima sala si offriva loro la meditazione: tutti liberi di stare insieme, muoversi o posarsi a occhi chiusi, invitati ad affidarsi alle inservienti per lasciarsi andare. In una seconda o terza stanza veniva agito, rivissuto, lo spazio del sonno: molte brandine ospitavano le attività del bisogno primario. Altri spazi simulavano il camminare, rallentato, immobilizzato nell’attraversare le sale da un muro all’altro. Marina Abramović stessa accompagnava il sonno o il passo degli ospiti. Un pubblico continuo per giorni, per settimane ha garantito la vita in quella galleria, affluendo all’interno dopo aver atteso fuori in coda nei giardini del tempio. Tutte le attività che segnano la nostra attitudine biologica, la nostra fisiologia ventricolare o di corpi e cavità porose, veniva amplificata dal silenzio, dalla ripetizione identica dei gesti più semplici. Camminare, dormire, restare in piedi con sforzo e sudore. Guardare gli altri anche, con sforzo e sudore. Chiudere gli occhi con abbandono non immediato.

Marina Abramovic - illustrazione di Roberta Garzillo

Marina Abramovic – illustrazione di Roberta Garzillo

L’estate 2015, con una chiusura posticipata fino al 12 settembre, le gallerie di Kensington hanno ospitato una nuova installazione di Marina Abramović. Tutte le abitudini faticosamente conquistate nell’estate 2014 sono state spazzate via. L’affluenza, già rilevante l’anno scorso, con tutta evidenza numerica si è moltiplicata. Il formato dell’esperienza è simile, completamente rovesciato di segno. Si resta in coda nei giardini, si ammira l’ultimo scorcio di lago e le sdraio a fasce colorate sotto gli alberi e poi si entra. Si consegnano sempre gli effetti personali ma stavolta dopo un’ispezione armata di alcuni militari in assetto antiterrorismo. Gli armadietti bianchi ricevono in consegna i nostri portafogli, le carte d’identità dei turisti vengono smistate in una camera diversa. Non si è assolutamente preparati a quest’accoglienza né a quanto succede dopo, nessuna indicazione viene distribuita né all’esterno né dentro. Nessuna cuffia insonorizzante ci ovatta. L’ambiente è unico: un ampio teatro di posa, inizialmente appare più grande di quello che è per la penombra ai lati, la luce viene da due potenti illuminazioni di scena, il resto è in ombra. Gli ospiti che affluiscono a gruppi numerati si dispongono ai lati, evitano i riflettori, sono attratti all’istante dalla scena esibita sotto i riflettori. Un uomo in tuta arancione è in ginocchio, un profilo scuro e alto lo schiaccia da dietro, lo minaccia con una lama che nemmeno vediamo. È un’esecuzione dell’Isis che avviene davanti a noi. Lo sfondo del teatro di posa è di un’ocra deserto di incredibile fedeltà, il pavimento del teatro, la superficie su cui poggia le ginocchia il giustiziato è polvere e deserto. Ci si accorge dopo alcuni secondi che tutto avviene a favore di cineprese: l’esecuzione viene filmata, alcuni operatori gridano indicazioni in inglese. Dopo i primi minuti di ambientamento, alcuni inservienti in nero scortano a due a due alcuni visitatori a ridosso della scena. Si viene invitati a spogliarsi, restare a piedi nudi e indossare il saio arancione. A turno ogni ospite è incitato a inginocchiarsi sotto i riflettori e a sentire il deserto sotto le palme dei piedi nudi. Dopo alcuni minuti di proclami a favore di cinepresa il boia ci copre il volto.
L’agitazione aumenta quando gli ospiti si accorgono che il corpo vestito di arancione viene messo da parte e non si solleva più. Si capisce subito che anche altri sono ammassati a terra, solo quando l’ultimo del gruppo ha attraversato l’esperienza, tutti gli altri possono rialzarsi e recuperare i vestiti. Quando si ha il tempo, la disponibilità e la voglia di ritornare, di ripetere l’esecuzione s’iniziano a notare altri dettagli. Lo sfondo del teatro di posa non è fisso, al deserto senza costruzioni segue un deserto con accenni minimi di costruzioni in lontananza, oleografie minime di persone che camminano a distanze ancora maggiori. Si può arrivare anche ad ammirare il teatro di Palmira allestito e interamente evocato nel teatro di posa con una perizia tecnica, di luci, di gradazioni di luce che sembra quasi di avvertire cambiamenti nella temperatura percepita. L’aspetto visivo di questa realtà voluta dall’Abramović, l’impatto atmosferico dei cambiamenti nello scenario, riprodotti dal vivo con una fedeltà unica, è realmente il centro di tutta l’operazione, forse il suo aspetto più pervasivo, più autenticamente ostile, più destabilizzante. Il dominio della finzione, e di una finzione operata per mezzo della tecnica, ci è sottratto, quel dominio si rivolta contro di noi, non mediato, non attenuato.
Parlare subito di una riflessione sulla società dello spettacolo riassorbita e riutilizzata da un terrore totalitario, fuoriuscito dalla gabbia del XX secolo e lontano dal nostro esclusivo appannaggio occidentale, non è così utile come potrebbe sembrare a chi non ha avuto modo di entrare, di vedere l’opera, di vivere lo scenario di guerra. Esiste una condizione nell’esperimento dell’Abramović che scatena in quell’ambiente i piaceri del sangue, che pure non vediamo, esiste per un attimo in quello spazio un’antropologia del male, più reale, più misteriosa di un altro termine del paragone che a sua volta non è video, non è rituale.

 

Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.