Incontro dialogo con Paolo Ferrarini.
Siamo spesso abituati a leggere le immagini e a considerare la fotografia, almeno quella “quotidiana”, come memoria di momenti vissuti che cerchiamo di immobilizzare in una dimensione atemporale o anche come rappresentazione “realistica” o ideale, con l’utilizzo di filtri fisici e “mentali” della nostra realtà. Un bel volto, un paesaggio, il ricordo di un caro.
Può, però, uno scatto fotografico penetrare nei luoghi più reconditi dell’animo? Generare riflessioni filosofiche e indurci a pensare sulla nostra condizione umana? Mostrare ciò che non è visibile a occhio nudo e metterci a confronto con i comportamenti della nostra mente che potrebbero passare inesplorati e/o sottoanalizzati?
A questo tipo di interrogativi sembrano rispondere anche i lavori del progetto fotografico A Margine, del giovane artista veronese, Paolo Ferrarini.

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È difficile relegare Paolo Ferrarini in un preciso contesto espressivo: artista eclettico, poliedrico, confluisce nella sua creatività tutto il suo bagaglio culturale dagli interessi puramente linguistici, in particolare per la filosofia dei linguaggi e le scienze cognitive, a quelli musicali, che collidono in un nuovo tipo di rock musicale che definisce rock cognitivo. È un’arte che induce alla conoscenza, che mira a far vibrare non solo le corde del cuore del fruitore ma ne mette in moto i meccanismi celebrali. Oserei dire una delizia per la mente e il cuore. E tra i ritagli di una vita trascorsa in itinere tra l’Europa, il Medio Oriente e l’Asia minore, Paolo rivolge la sua attenzione anche ad altre passioni come il cortometraggio e la fotografia.
Nelle nostre lunghissime conversazioni mi conduce quasi per mano nei meandri della psiche umana, facendomi ripercorrere e rivivere di pari passo la ricchezza del suo mondo interiore. Parlare con lui è come iniziare una partita interminabile di ping-pong, dove sul campo di gioco si mettono continuamente in discussione diversi punti di vista. Bisogna solo stare attenti a delimitare le regole: si correrebbe il rischio di percorrere tangenti diverse nel cercare di seguire binari paralleli.

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Paolo, le tue immagini per la forte carica omoerotica, hanno una somiglianza con i lavori fotografici del punk-porn Bruce la Bruce.

PF: A livello fotografico, credo che mettere insieme la sensualità e la morte faccia riferimento all’uso della sua polaroid, ma il mio lavoro esula da qualsiasi contesto pornografico. Nel mio lavoro c’è invece una forte sensualità.

Ripercorrendo le immagini vedo corpi che si danno allo spettatore nella loro fragilità, con il loro forte erotismo. Sono abbandonati ai “margini” di una ferrovia con le mani legati, in un salotto con altri oggetti o asfissiati in buste da cellophan. L’attenzione ricade su stessi. Tra il visibile e in non-visibile, in un sottile gioco tra presenza e assenza, lecito e illecito rievocano a volte la fisicità prorompente del fauno di Barberini, che con il suo candore e completamente nudo diventa oggetto di pura contemplazione estetica.
I corpi presentati in questo lavoro sono corpi inermi e l’occhio voyeuristico del fruitore procede oltre la contemplazione estetica. Sono incapaci di reagire perché o morti o indifesi o in uno stato di incoscienza e, in quanto vulnerabili, diventano preda dell’osservazione altrui.
PF: È come se l’essere indifesi li rendesse molto più attraenti. È come se si generasse in noi una sorta di fantasia sessuale, nel desiderio di possederli. Trovare un ragazzo inerme, indifeso, in una situazione di pericolo, anziché generare nell’osservatore un senso di solidarietà e spingerlo ad aiutarlo, mette in meccanismo dei moti più oscuri dell’animo umano. Il corpo, ridotto a semplice oggetto diventa il soggetto dei nostri istinti sessuali.

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L’aspetto sessuale prende il sopravvento su quello empatico; nessuno prova pietà su quello che è accaduto nel momento antecedente allo scatto. Siamo di fronte a un dato di fatto. Questi sono corpi abbandonati e siamo noi a osservarli e a fruirne della loro oggettivizzazione. Ed è proprio questo che interessa all’artista . Osservare l’animo umano e mettere a confronto l’amoralità delle nostre passioni, nel possedere o meno questi corpi e dare spazio alle nostre “debolezze”, con le funzioni più alte del nostro cervello, che ci spingono a frenare questi istinti.

PF: Ci sono circostanze che generano in noi questi impulsi, reduci del nostro passato di lotta per la sopravvivenza, che nessuno ammetterebbe di possedere. È come se sotto le spoglie della nostra educazione ed “ istitutizzazione” si celasse il sottile velo del nostro sadismo nel desiderio di fare un’esperienza atroce e di dare libero spazio alla nostra crudeltà.

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Un continuo alternarsi, aggiungo, tra l’essere vittima e predatori con cui ci confrontiamo di continuo a livello inconscio. È come ammettere che il bene è complice del male, nella misura in cui è vero il contrario.

PF: Ecco, fare per me queste foto è stato quasi come confrontarsi con questi aspetti della natura umana, non necessariamente in senso terapeutico, ma semplicemente analizzandoli e restandone al di fuori come un acuto osservatore “ai margini”.
E Paolo, continua a essere un artista ai margini, lavorando su aspetti della creatività poco esplorati, militando per minoranze sociali. Nel fare ciò, rimane avulso da ogni contesto narrativo mainstream, in cui appare e riappare nell’alternarsi della sua vita ricca di impegni tra tsunami e stasi. Ed è proprio in questi momenti che preferisce riflettere e produrre sulla assenza. È un artista che continua a vivere tra “parentesi”, ecclissandosi nella sua essenzialità come dimostra anche il modo in cui si firma con la prima e ultima lettera del nome e cognome (pi). In questa assenza produce e restituisce ai fruitori la sua arte che come i suoi corpi diventa l’oggetto della nostra manipolazione ed interpretazione. L’artista chiede a noi di fruirne e abusarne. Non so se sia un modo nuovo di essere dell’artista contemporaneo ma sicuramente il lavoro di Paolo è molto progressista nell’approccio e cerca di essere un “generatore” di nuove fantasie.

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A proposito dell'autore

Giancarlo Napolitano si è laureato in lingue e letterature straniere presso la facoltà di lingue dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, discutendo una tesi letteraria di natura sperimentale sugli spazi e i tempi nell'Assommoir di Emile Zola, rivisitando il romanzo in chiave psicanalitica. Ha sempre nutrito un vivo interesse per l'arte, in particolare per quella rinascimentale. Vive da anni a Londra e ha potuto coltivare questa passione con continue visite alla National gallery che ha sempre considerato come una sua seconda dimora. Di carettere inquisitivo si interroga sulle opere degli artisti, continuo assertore del progresso, vede in ogni opera contemporanea un ponte con il passato con il quale rapportare ogni sua esperienza quotidiana.